Archive for febbraio 2017

Frailty – Nessuno è al sicuro

febbraio 28, 2017

FrailtyFrailty
USA 2001 Lions Gate
con Bill Paxton, Matthew McConaughey, Power Boothe, Luke Askew
regia di Bill Paxton

Una sera, l’agente dell’FBI Wesley Doyle riceve una strana visita: un uomo che dice di chiamarsi Fenton Meiks gli rivela che “la mano di Dio”, il serial killer che Doyle sta cercando da mesi senza successo, è suo fratello Adam che si è appena suicidato.
Fenton gli racconta la storia della sua infanzia: lui e suo fratello cresciuti dal padre che un giorno impazzisce e confida ai figli di essere stato scelto da Dio per la lotta finale contro i demoni. I due ragazzini vengono coinvolti nella spirali di omicidi dal padre, mentre il piccolo Adam accetta senza problemi la follia del genitore, Fenton farà di tutto per opporsi fino al punto di uccidere il padre.
Doyle si lascia convincere dalle parole di Fenton e lo segue nel roseto dove si trovano i cadaveri delle vittime ma andrà in contro ad una amara sorpresa..

Frailtynessunoèalsicuro

Debutto alla regia nel lungometraggio dell’attore Bill Paxton, Frailty è un originale horror dai risvolti psicologici, girato quasi come una fiaba nera per bambini: gli omicidi sono sempre fuoricampo, soprattutto nella parte iniziale del film, con il procedere del disvelamento della vera identità dei personaggi anche la visione del sangue aumenta pur mantenendo gli aspetti gore ai livelli minimi.
Il punto di vista è quello infantile di Fenton, il più grande dei fratelli Meiks che si trova a dover gestire improvvisamente la lucida pazzia di un padre altrimenti amorevole e comprensivo. Diviso tra il proprio senso di giustizia e l’amore verso il genitore il ragazzino si troverà a dover fare una scelta drammatica tra il padre e la sua ennesima vittima.

Frialtymeiks

Lo studio psicologico del bambino è ben articolato e rende coinvolgente i due terzi del film che nel sottofinale prende una piega del tutto inaspettata: non solo il racconto del presunto Fenton è totalmente inventato ma probabilmente anche lo schieramento tra buoni e cattivi, pazzi e savi va completamente ribaltato. Finale d’effetto molto riuscito per un film horror che aggiunge una critica alla società contemporanea alla stigmatizzazione dell’inquietante delirio religioso.
Avevo visto questo film in sala quando era uscito nel 2002 e mi è sempre rimasta impressa l’ambiguità di Matthew McConaughey, allora solo considerato solo un sex symbol, il suo lato oscuro è emerso definitivamente in opere molto più recenti come Killer Joe, un plauso quindi a Paxton anche per l’intuizione.

45 anni

febbraio 25, 2017

45anni45 Years
Gran Bretagna 2015
con Charlotte Rampling, Tom Courtenay, Geraldine James
regia di Andrew Haigh

Kate e Geoff sono un’anziana coppia senza figli che sta per festeggiare i 45 anni di matrimonio. A cinque giorni dalla cerimonia Geoff riceve una lettera che lo informa che è stato ritrovato il corpo della donna con cui stava prima di conoscere Kate, caduta in un crepaccio nel 1962, durante un’escursione in montagna.

Lo spunto della storia, il corpo riemerso dai ghiacci dopo decenni, mi ha ricordato un episodio della serie tv Alfred Hitchcock presenta, La Bara di ghiaccio, dove una moglie recupera dopo quarant’anni la salma del marito alpinista caduto in un crepaccio e scopre che ha trascorso la vita nel ricordo di un uomo morto con il ritratto di un’altra donna nel medaglione che stringeva nella mano in punto di morte.
Se Hitchcok raccontava la storia con il suo beffarda ironia, il regista Andrew Haigh indaga con delicatezza il rapporto di una coppia apparentemente solida, con quarantacinque anni di storia alle spalle, messa improvvisamente in crisi da un fantasma del passato, per giunta un passato che non riguarda neppure la loro vita di coppia: la morte di Katya risale a un periodo precedente l’incontro di Kate e Geoff.
L’attenzione del regista è incentrata più sulle reazioni di Kate, una donna apparentemente sicura, che ha ben salde le redini del ménage familiare e che improvvisamente scopre che l’uomo che ha accanto da 45 anni le riserva ancora dei misteri: della sua relazione con Katya sa ben poco e nella settimana che precede la celebrazione del loro amore si ritrova improvvisamente un compagno distratto, perso nella rievocazione del passato e della giovinezza perduta, forse il vero spettro che rischia di mettere in crisi la coppia, ponendo domande sulla natura delle scelte compiute.
Vero kammerspiel giallo con il rovesciamento di tutte le certezze, anche la casa da sicuro nido dell’amore di una vita si trasforma in nel ripostiglio dei segreti più reconditi, di un’esistenza intima che forse è scorsa parallela a quella condivisa di Kate.
Tutto il film si regge sull’interpetazione molto contenuta, ma non per questo meno intensa, dei due attori, giustamente premiati come migliori interpreti alla Berlinale 2015.

La La Land

febbraio 22, 2017

Lalaland

Mia, aspirante attrice che si mantiene lavorando in una caffetteria all’interno degli Studios, inizia ad incontrare, all’inizio in maniera poco piacevole, Sebastian, un musicista squattrinato con la fissa del jazz. Raccontandosi sogni e progetti Mia e Sebastian s’innamorano ma la prosaicità della vita quotidiana mette alle corde il loro sentimento e realizzare le proprie ambizioni forse vuol dire mettere da parte l’amore..

Confesso di essere entrata in sala con molti pregiudizi verso un film troppo osannato per non temere di restare delusa e invece sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla gradevolezza della storia dolce amara e soprattutto dalla capacità con cui Damien Chazelle sa far rivivere le atmosfere della grande stagione del musical e non mi riferisco tanto alle citazioni più o meno evidenti che sono stati sviscerate ovunque da mesi, a colpirmi è stata l’accuratezza di certi particolari, l’uso del colore ma soprattutto l’anno di produzione del film scritto in numeri romani sotto il titolo: per una che si è rovinata la vista nel cercare di decifrare col fermo immagine certe date davvero minuscole nel corso degli anni, è stato quasi commovente ritrovarsi questo dettaglio sul grande schermo per un film del 2016!
Oltre che un omaggio ad un genere cinematografico, il film è anche un omaggio alla città di Los Angeles la City of stars della canzone principale, candidata agli Oscar e già vincitrice di un Golden Globe. Un atto d’amore così viscerale da rischiare di mettere in crisi la cosiddetta ”sospensione dell’incredulità”: davvero Mia se ne può tornare a piedi da una festa in collina, senza che le accada nulla? Davvero si può amoreggiare su all’Osservatorio senza che si materializzi un delinquente quando si sa che ogni angolo di L.A. è buono per ritrovare un cadavere? Ripeto l’omaggio è talmente sentito che ti dimentichi anche del lato oscuro di Los Angeles e ti lasci trasportare dalla storia di Mia e Sebastian.
Divisa in quattro capitoli che seguono il corso delle stagioni la vicenda mi ha ricordato il nostro Dieci inverni, un altro film d’amore che regala la stessa fascinazione dell’amore “semplice” di La La Land.
Una semplicità apparente perché il mancato lieto fine (scelta giusta, scelta sbagliata o addirittura scelta maliziosa che lascia lo spiraglio per un sequel?) richiama ancora una volta un classico hollywoodiano dai molti remake (il prossimo pare nel 2018) il musical del 1954 che non si trova nell’elenco delle citazioni, E’ nata una stella che nella sua prima versione drammatica del 1932 aveva un titolo che racchiude bene il film di Chazelle: A che prezzo Hollywood?

Zootropolis

febbraio 20, 2017

ZootropolisZootopia
USA 2016 Walt Disney Animation Studios
regia di Byron Howard e Rich Moore

Judy Hopps fin dall’infanzia è decisa a diventare una poliziotta della megalopoli di Zootropolis e non si lascia blandire dai genitori che vorrebbero che restasse in campagna lontana dai pericoli della grande città né si lascia intimorire dal duro corso di addestramento studiato per animali molto più robusti di lei. Coronato il sogno, Judy si deve scontrare con la realtà: il capo che la relega a semplice ausiliaria del traffico, la sua ingenuità che la fa cadere vittima della volpe Nick Wilde che vive di espedienti. Con Nick, Judy sviluppa un rapporto di amicizia ee è proprio la volpe ad aiutarla a ritrovare i 14 animali, tutti predatori, scomparsi dalla città . Quello che però dovrebbe essere il momento di gloria di Judy si trasforma nel momento più basso della sua esistenza perché anche la coniglietta convinta che nulla è impossibile, si scopre a ragionare secondo pregiudizi..

Metropolis continua il modello di Frozen: far scontrare il sogno fiabesco con gli inconvenienti della realtà per cui il sogno si concretizza solo grazie al lavoro su sé stessi, se in Frozen il meccanismo funzionava perfettamente, in Zootropolis la storia fatica ad ingranare per il bisogno di spiegare, anche troppo dettagliatamente, la realtà della metropoli e la natura di Judy: si arriva alla sequenza dei bradipi stremati come la protagonista, poi dall’introduzione del personaggio di Mr.Big fortunatamente il film si mette a funzionare e non solo per l’omaggio a Il Padrino ma perché iniziano a raccordarsi gli episodi precedenti e la pellicola prende un ritmo rapido che forse toglie un po’ di spazio all’approfondimento della figura del responsabile della macchinazione ai danni della convivenza pacifica tra animali di Zootropolis (molto più significativo il titolo originale Zootopia ma non si perde il vizio di modificarli in peggio).

Zootopia

Se la trama ha qualche cedimento la macchina Disney funziona perfettamente nel gioco citazionista, persino di Breaking Bad, sdoganando il citazionismo seriale e ironizzando su se stessa: la donnola che vende film e cd illegalmente vanta prodotti non ancora usciti al cinema e sul suo banco compare il dvd di Meowana, riferimento a Moana l’ultimo lavoro Disney attualmente in sala con il titolo italiano di Oceania.

Smetto quando voglio – Masterclass

febbraio 16, 2017

Torna la scalcagnata banda dei ricercatori messa in piedi dal precario Pietro Zinni, stavolta sono al servizio dello Stato, sulla promessa della fedina penale ripulita.

L’ispettore di polizia Paola Coletti si serve di loro per sgominare le nuove “smart drugs” le cui formule non sono ancora illegali perché non note al ministero; dovendo compiere anche un’operazione di contenimento degli spacciatori, la banda si arricchisce di nuovi elementi, altri eminenti (?) cervelli in fuga ma ancora una volta le cose non andranno come previsto..

SmettoQuandoVoglioMasterclass

Smetto quando voglio – Masterclass è la seconda parte di una trilogia che si concluderà l’anno prossimo con Smetto quando voglio – Ad Honorem, episodio finale che è stato girato in contemporanea con la seconda parte.

La notizia, però, non è che finalmente un film italiano riesce ad avere un progetto produttivo degno di un blockbuster americano, la vera notizia è che Smetto quando voglio – Masterclass è uno dei rarissimi casi (del cinema mondiale) in cui il sequel è all’altezza del primo episodio.

Se torna la fotografia acida in stile Instagram, forse cambia un po’ il genere di comicità che nel primo capitolo era più affidata alle battute mentre in Masterclass a far ridere fino alle lacrime sono gag fisiche: la sequenza del treno che avrà un perfetto sviluppo in stile action, si apre con un’inattesa (perché la gag non avviene dove ti aspetti) scena fantozziana.

Il film s’inserisce in questo nascente filone che rilegge “all’italiana” i generi americani, a partire da Lo chiamavano Jeeg Robot. Il film di Sibilia sembra rimasticare molta cinematografia compresi i successi italiani: quando un detenuto critica l’altro per come canta, ammonendolo che rischia che gli tolgano la parte, ho subito pensato a Cesare deve morire dei Taviani; non è fatto di citazioni, Smetto quando voglio – Masterclass ma di allusioni a film o situazioni politiche (il manipolo su mezzi originali del III Reich sullo sfondo del Colosseo quadrato!) che sanno colpire un ventaglio di pubblico molto eterogeneo.

Sempre notevole il cast arricchito dalla presenza di Giampaolo Morelli e Marco Bonini nelle vesti di due sgangheratissimi cervelli in fuga e dalla presenza di Greta Scarano in quella della poliziotta che ha l’intuizione di sfruttare la banda per debellare il mercato delle smart drugs.

Paterson

febbraio 14, 2017

Patersonloc

Una settimana della vita del trentenne Paterson, autista di autobus nella città di Paterson, New Jersey.
Una vita tranquilla: una moglie, Laura, un cane, un bar dove andare a bere una birra tutte le sere, ritmi di vita talmente consolidati che non c’è neppure bisogno di puntare la sveglia per alzarsi la mattina.
Abitudinario ma felice Paterson si nutre di poesie, quelle che scrive sul suo taccuino segreto, senza nessuna ambizione di fama, solo per restare in contatto con sé stesso.

La maggior parte dei film di Jim Jarmush racconta storie minimali e un po’ strambe che si riflettono anche nello stile di ripresa: macchina frontale o diagonale, ripresa fissa o qualche carrello che, come quando parte come nel sottofinale di Paterson, ti emoziona più dell’elaborato piano sequenza del momento.

Paterson

Nulla di nuovo, apparentemente se non fosse che Paterson è il film più zen degli ultimi anni, dove la poesia delle piccole cose è raccontata con poesia (scusate la ripetizione ma in fondo l’anafora linguistica e stilistica è la cifra del film) e spiega come può dare se non la felicità, quanto meno la più necessaria serenità.
Un film che dimostra meglio del più venduto manuale motivazionale come il nutrire le proprie passioni, vulcaniche come quelle di Laura o delicatamente intime come quelle di Paterson, rappresenti il vero io di una persona, molto più del suo lavoro o del suo status sociale: lo dimostra il piccolo (!) dramma famigliare che getta giustamente il protagonista nello sconforto di aver perso sè stesso ma gli dà anche l’occasione per nuovi incontri e ritrovare la sua inossidabile serenità.

Patersonbar

Anche la città Paterson è protagonista del film, con il suo fascino decadente fatto di vecchie fabbriche abbandonate senza nessuna prospettiva di riqualificazione, la cascata incastonata nell’ex tessuto industriale, un passato glorioso di personaggi celebri che sono passati di lì e che ora sopravvivono solo sul muro del bar di Doc.

Non c’è pace tra gli ulivi

febbraio 11, 2017

NoncèpacetragliulivilocItalia 1950 Lux
con Raf Vallone, Lucia Bosè, Folco Lulli
regia di Giuseppe De Santis

Il pastore ciociaro Francesco Dominici tornato dalla guerra e dalla prigionia, scopre che le venti pecore che rappresentavano le ricchezze della sua famiglia sono state rubate da Agostino Bonfiglio, ricco pastore che spadroneggia sugli altri con violenta prevaricazione. Anche la bella Lucia, innamorata di Francesco sta per sposare Agostino, così da ripagare le cambiali del padre. Francesco decide di riprendersi le pecore ma Agostino chiama i carabinieri: durante il processo nessuno osa testimoniare in suo favore per paura delle rappresaglie di Agostino che brucia stalle e avvelena le pecore. Nemmeno Lucia ha il coraggio di testimoniare e Francesco finisce in galera non sapendo che la notte della tentata riappropriazione delle pecore Agostino aveva violentato la sorella Maria Grazia che ha sviluppato un attaccamento morboso per il suo aguzzino e ora vive in casa con lui, dopo aver fatto saltare le nozze con Lucia. Francesco evade per vendicarsi e finalmente ottiene l’aiuto di tutti i pastori stufi delle angherie di Agostino.

NoncèpacetragliuliviAgostinoNon c’è pace tra gli ulivi è forse il film più controverso di Giuseppe De Santis, regista che ha saputo coniugare in maniera originale le tematiche neorealiste sviluppate con particolare attenzione soprattutto verso le realtà contadine e poi coniugate con il melodramma in Riso amaro e anche con derive western in Non c’è pace tra gli ulivi.
La critica soprattutto quella dell’epoca vede nel secondo lavoro un tentativo di aggiustare in chiave comunista quello che la logica di partito non aveva apprezzato in Riso Amaro quindi la voce off del regista che introduce e conclude la vicenda commenta il finale con la necessità degli ultimi di unirsi contro i soprusi.
I punti di contatto tra Riso Amaro e Non c’è pace tra gli ulivi restano diversi ma su tutti spicca la figura della protagonista femminile, eroina suo malgrado che ha fatto delle due interpreti due star, nel primo caso Silvana Mangano, nel secondo Lucia Bosè, anche lei impegnata in un ballo, il saltarello, per distrarre l’attenzione delle guardie e permettere la fuga di Francesco.
L’attenzione per la realtà contadina assume una valenza molto più documentaristica in Non c’è pace tra gli ulivi, ambientato nei luoghi nativi del regista, che sa sfruttare anche una processione religiosa ai fini della trama che effettivamente mostra qualche debolezza in alcuni passaggi.

Noncèpacetragliulivi

Di notevole resta la fotografia e l’ambientazione sui monti scabri della Ciociaria, il sapiente uso della composizione dell’immagine con l’uso del panfocus che permette la profondità di campo tenendo a fuoco tutti i livelli dell’inquadratura.

Come le foglie al vento

febbraio 10, 2017

WrittenOnTheWindWritten on the wind
USA 1956 Universal
con Rock Hudson, Lauren Bacall, Robert Stack, Dorothy Malone, Robert Keith
regia di Douglas Sirk

Jasper Hadley, magnate del petrolio texano non è molto fortunato in famiglia: vedovo si trova ad avere due figli inquieti e piuttosto inetti: la vicinanza del solido Mitch Wayne che il padre sperava fosse un modello ha in realtà esasperato i caratteri dei figli, aumentando le insicurezze di Kyle che non si sente all’altezza del suo migliore amico e trasformando Marylee in una sgualdrina nel tentativo di attirare le attenzioni dell’uomo che ama da sempre ma che la vede solo come una sorella. Quando Mitch presenta Lucy Moore a Kyle per il rampollo è amore a prima vista, ricambiato, e per un anno riesce a restare lontano dall’alcol ma preso dal timore di essere sterile ricade nell’alcolismo e sospetta che il figlio che la moglie aspetta sia di Mitch scatenando la tragedia..

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Come le foglie al vento si apre con la resa dei conti finale per poi rivivere tutta la vicenda come un flash-back introdotto dai fogli del calendario che, sfogliati dal vento, girano all’indietro fino all’incontro di Lucy con Mitch e Kyle. Quello che però la scena iniziale lascia immaginare non è quello che realmente avviene, probabilmente è una proiezione distorta delle intenzioni di Kyle completamente ubriaco che rimarrà vittima di quanto ha innescato. Segue un processo dove ad essere accusato della morte del ricco petroliere è proprio Mitch, il suo migliore amico; Marylee che sa della morte accidentale del fratello fino all’ultimo cerca di conquistare l’uomo dei suoi sogni ricattandolo, salvo poi crollare sul banco dei testimoni e ritrovarsi sola nella grande casa di famiglia.
Un altro melò fiammeggiante di Douglas Sirk che rende claustrofobica una storia famigliare, piena di complessi edipici irrisolti e insicurezze che minano i rapporti.
ComefoglieventoRock Hudson e Lauren Bacall sono i bellissimi ed inarrivabili modelli per i fratelli Hadley che agognano un amore di cui non si sentono all’altezza con tragiche conseguenze. Anche la recitazione trattenuta dei due divi sottolinea il loro distacco dalle passioni e dai demoni che divorano Kyle e Marylee, ottimamente interpretati da Robert Stack e Dorothy Malone, entrambi nominati agli Oscar come miglior attori non protagonisti ma la statuetta è andata solo all’attrice anche se personalmente trovo la sua interpretazione un po’ troppo carica di mossette.
A sottolineare il continuo rincorrersi dei personaggi: Mitch ama Lucy che solo dopo aver compreso l’impossibilità di redimere Kyle con il suo amore, si lascia andare ai sentimenti per Mitch, Sirk, ripropone le varie coppie nelle stesse situazioni, grande uso anche di specchi a riflettere doppi più distorti che speculari. Molte scene sono girate nello studio sotto il ritratto di Jasper Hadley, uomo buono e comprensivo che forse per le troppe qualità risulta un modello anche lui irraggiungibile per i figli.

La fuga di Logan

febbraio 9, 2017

LafugadiLoganloc Logan’s Run
USA 1976 MGM
con Michael York, Jenny Agutter, Peter Ustinov, Richard Jordan, Farrah Fawcett
regia di Michael Anderson

In un futuro post atomico la popolazione sopravvissuta si riorganizza in una grande città chiusa in una cupola impenetrabile: i bambini nascono in provetta e alla nascita viene loro innestato nella mano un cristallo che inizia a lampeggiare quando raggiungono i 30 anni di età, limite di vita consentito nell’edonistico mondo ovattato. Per rendere meno drammatica la dipartita di chi ha raggiungo i limiti d’età, si fa credere alla possibilità di “rinnovarsi” e iniziare così un nuovo ciclo vitale, ma non tutti apprezzano questo stile di vita e aumentano sempre più i sovversivi che cercano di lasciare la città. Logan5 è un sorvegliante e un giorno gli viene affidato il compito di infiltrarsi tra i ribelli per smascherarli..

Fantascienza distopica in salsa pop: La Fuga di Logan non ha certamente un grande spessore filosofico, ad esempio non si approfondisce il cambiamento d’idee avvenuto nel protagonista: Logan decide di venire meno agli ordini del computer che governa la città nel momento in cui non gli viene garantito che al ritorno dalla missione gli saranno restituiti i quattro anni di vita sottratti (il suo cristallo deve lampeggiare per far credere che un sorvegliante si voglia unire ai ribelli per paura di affrontare il Carousel) oppure è in un altro punto del viaggio che smonta le sue certezze, o è l’amore per Jessica6 che esplode nel ritrovato contato con la natura a far maturare la sua decisione?

LafugadiLogan

Detto questo il film è sicuramente molto piacevole, gli effetti speciali non risultano obsoleti e del resto alla regia c’è il mago degli effetti speciali Michael Anderson.
Mi ha molto colpito la scenografia degli ambienti comuni della città, identici in forma e funzione ai nostri attuali centri commerciali e anche il rifiuto della vecchiaia, la possibilità di “cambiare faccia” con la chirurgia plastica anticipano in pieno il nostro presente.

Box

Molti sono i referenti cinematografici della pellicola e non solo in ambito sci-fi: se il ritrovamento di una Washington semidistrutta rimanda al finale de Il Pianeta delle Scimmie (1968), la macabra scoperta del destino dei fuggitivi finiti in mano al robot Box mi ha ricordato Il mago di Oz (forse per l’assonanza) quando si scopre che il famigerato mago non è altro che un ometto patetico, mentre il Vecchio che vive nel decqadente Capitol Hill con migliaia di gatti recitando la poesia di T.S. Eliot, The Naming of Cats, mi ha fatto pensare al Papa Jules de L’Atalante.

Logansrun

Il successo del film ha portato alla creazione dell’omonima serie televisiva del 1977-1978.
Si vocifera di un remake, e ovviamente si pensa giàdi gonfiarlo a trilogia.

Arrival

febbraio 4, 2017

Arrival Quando improvvisamente dodici astronavi aliene stazionano in dodici punti diversi del nostro pianeta, la linguista Louise Banks viene ingaggiata dalla task force americana che cerca di comprendere la natura del misterioso oggetto sul suolo americano, per capire se gli alieni sono in grado di comunicare tra loro e anche con noi…

Denis Villeneuve affronta la fantascienza filosofica con un messaggio fortemente pacifista: non si vedevano da tempo alieni animati da così buoni intenzioni, personalmente li ritengo anche un po’ sprovveduti dato che sono venuti sulla Terra per creare un rapporto amicale in previsione del fatto che tra 3000 anni la loro razza avrà bisogno del nostro aiuto e contare su un sentimento di gratitudine da ripagare dopo 3000 anni mi sembra chiedere un po’ troppo alla razza umana che come al solito, all’arrivo degli alieni, rischia di distruggersi da sola per paura, scarsa comprensione e nessuna voglia di scambiarsi le informazioni acquisite.

A prendere letteralmente in mano la situazione e salvare il pianeta è la giovane linguista che con passione cerca di comunicare con gli alieni interpretando il loro linguaggio e ricevendone in cambio una comprensione dell’universo che trascende i limiti del nostro mondo.

Lo stile scelto dal regista è estremamente minimalista, sia nella rappresentazione delle astronavi dai gusci convessi che si fermano a pochi metri dal suolo terrestre sfidando la legge di gravità, che nel rappresentare gli alieni, presenze sfuggenti immerse nella atmosfera liquida che permette loro la vita (e chissà perché a livello inconscio sono convinta che l’acqua sia l’elemento terrestre che meglio possa rappresentare una diversa concezione temporale).

Arrival2

Arrival punta molto sull’enfasi per celazione: l’arrivo degli alieni, che pure dà il titolo al film, non è mostrato: l’attenzione è rivolta sulle reazioni dei terrestri che assistono all’evento sui media. Gli eptapodi in fondo non sono figure così innovative per gli amanti della sci-fi e mi permetto una battuta dicendo che più Tom & Jerry (Abbot & Costello nella versione originale) io li avrei soprannominati Yog e Sothoth.

Il film sembra voler parlare all’inconscio delle persone usando un immaginario derivativo dai classici della fantascienza, una logica stringente per cui a un certo punto avevo capito chi era il padre di Hannah, la figlia di Louise, un apparente tentativo di “furbizia” lasciando la possibilità di immaginare un paradosso temporale alla Terminator smentito della scrittura circolare (come il tempo) degli alieni.