Archive for aprile 2015

Dietro i candelabri

aprile 30, 2015


Behind the Candelabra
USA 2013
con Michael Douglas, Matt Damon, Rob Lowe, Dan Aykroyd
regia di Steven Soderbergh

L’ultimo decennio di vita del celebre show man Liberace, dal 1977 quando, ultrasessantenne, conosce il giovanissimo Scott e vive la storia d’amore più importante della sua vita che finisce tristemente per vie legali dopo cinque anni, fino alla morte dell’artista vittima nel 1987 dell’AIDS.

Władziu Valentino Liberace era un pianista americano di origini italo polacche che ebbe un grandissimo successo tra gli anni ’50 e ’70, celebre per le sue mises stravaganti e costosissime, rifiutò sempre di ammettere la sua omosessualità e la morte per AIDS negli anni più virulenti della malattia ha fatto cadere l’oblio sul suo nome.
Steven Soderbergh riporta alla ribalta il suo personaggio con un film tratto dall’omonimo libro di Scott Thorson che racconta la sua storia d’amore con l’artista. Il film ha fatto molto discutere perché in America è stato giudicato “troppo gay” dalle case di produzione e non è stato distribuito in sala ma direttamente in televisione dalla HBO. In Europa il problema non si è posto e il film è stato anche in concorso al Festival di Cannes.
Il vero peccato della mancata distribuzione nelle sale americane è che questo era il classico film confezionato per gli Oscar dall’eclettico Soderbergh, non mancava nulla: la trasformazione mimetica degli attori, la malattia, la perfetta ricostruzione storica con costumi sfarzosi, ottime musiche, tutto riconosciuto dai diversi premi che il film ha vinto a partire dai Golden Globe.
Resta, in ogni caso una pellicola molto interessante che offre molti livelli di lettura dal biopic di ultimo tipo, quello che si concentra su un singolo periodo o un singolo episodio per spiegare la vita di un’artista come avviene anche in Hitchcok o Rush. Da questo punto di vista la pellicola ha il merito di aver rispolverato dall’oblio uno show man che per certi versi è stato un precursore, fosse solo per gli abiti folli indossati ben prima del glam rock, di Elton John o Lady Gaga. Come uomo ne esce la figura di una persona dall’ego ipertrofico, un vampiro psichico che prosciuga le energie di chi gli sta vicino per poi buttarlo quando non gli serve più.
Il film funziona anche sul piano sentimentale, narrando le varie fasi di una storia d’amore che vivono quasi tutte le coppie al di là delle inclinazioni sessuali.
Sulla bravura del cast credo ci sia poco d’aggiungere: oltre ai due ottimi protagonisti a me è piaciuto molto Rob Lowe nei panni del tiratissimo chirurgo estetico spacciatore di anfetamine che portano alla dipendenza da droghe Scott.
Il tocco autoriale di Soderbergh si vede nel tentativo di smascherare i trucchi che stanno dietro al personaggio e anche allo show biz, tutto fatto con leggerezza ed ironia (la prima apparizione di Liberace senza capelli) e in fondo è divertente che questo perfetto meccanismo studiato a tavolino abbia perso l’occasione di partecipare agli Oscar per cui era costruito: una sorta di contrappasso con il mito che voleva smontare.

L’ammutinamento del Bounty al cinema

aprile 28, 2015

LatragediadelB Il più famoso ammutinamento della storia avvenne alla fine del XVIII secolo, il 28 aprile 1789 a bordo di un vascello che era partito alla volta di Tahiti, per una missione scientifica. L’impresa era guidata dal tenente di vascello William Blight e riuscì perfettamente ma durante la rotta di ritorno parte dell’equipaggio e alcuni ufficiali, insofferenti alle regole ed ancora ammaliati dalle disinibite bellezze tahitiane si ammutinarono e fecere ritorno nei Mari del Sud, rifugiandosi nell’Isola di Pitcairn, lasciando il comandante Blight e l’equipaggio rimastogli fedele su una lancia che incredibilmente riuscì a sbarcare su una colonia olandese.
La vicenda degli ammutinati del Bounty col tempo si è ammantata di leggenda e il cinema non si è fatto sfuggire una trama così intrigante e ha prodotto ben tre versioni di questa storia.

AmmutinatidelB La prima versione del 1935 firmata da Frank Lyold, La tragedia del Bounty (Mutiny on the Bounty) è una tipica produzione fastosa della MGM e si ispira al mito del Bounty che vuole nel comandante Blight un sadico e che fa di Fletcher Christian un eroe romantico spinto da un ideale di giustizia. Ad interpetare i protagonisti della vicenda ci sono Charles Laughton, nelle vesti del crudele comandante e Clark Gable, senza baffi, nel ruolo dell’eroico Christian.
Nel 1962 si pensa ad un remake di questo classico intitolato Gli ammutinati del Bounty (il titolo originale è sempre Mutiny on the Bounty) e per la parte che fu di Clark Gable viene chiamato il divo del momento, Marlon Brando.
Il film doveva essere un kolossal di esotismo e avventure marinare diretto da Carol Reed ma il volitivo Brando impose a metà lavorazione un cambio di regia facendo assumere Lewis Milestone.
Bounty Forse anche per non scontrasi con “il re di Hollywood” Clark Gable, scomparso l’anno precedente, Brando costruisce il personaggio di Christian come un dandy che non stima il suo superiore di origine plebea e guida l’ammutinamento per seguire un idealistico principio d’onore.
La pellicola fu girata nei luoghi che fecero da sfondo al fatto storico con grande profusione di bellezze tahitiane a far da comparsa; é noto che tra queste spiccassero le grazie di Tarita, che fece innamorare Marlon Brando e gli diede due figli. Per starle vicino il divo comprò l’atollo di Tetiaroa facendone il suo buen retiro.
Nel 1984 venne girato il terzo remake, Il Bounty (The Bounty): tra i tre è quello che ha minor fascino pur essendo il più fedele alla verità storica rivalutando il severo Blight, interpretato da Anthony Hopkins e descrivendo Christian come un personaggio che si lascia trascinare dagli eventi, ne veste i panni il sex-symbol degli anni ‘80, Mel Gibson.

Pubblicato nel 2007 su Alibi

100 anni di Anthony Quinn

aprile 21, 2015

Aquinn Antonio Rodolfo Quinn Oaxaca nasce il 21 aprile 1915 a Chihuahua, in Messico nel pieno della Rivoluzione messicana. Il padre di origini irlandesi-messicane è un soldato di Pancho Villa che diventa assistente cameraman e si sposta con tutta la famiglia a Los Angeles dove Anthony cresce tra gli studi, incompiuti, di archittettura (è allievo e amico personale di  Frank Lloyd Wright) i primi umili lavori e la boxe.
A 21 anni inizia la carriera di caratterista cinematografico e grazie a quella faccia così diversa dallo stereotipo wasp del divo americano, è richiesto per interpretare mille ruoli etnici: da cinese, arabo e soprattutto da pellirossa, ruolo che intraprende per la prima volta nel 1936 in La conquista del West di Cecil B. De Mille, di cui l’anno dopo sposa la figlia Katherine, anche lei attrice, da cui avrà cinque figli, i primi dei tredici avuti da diverse mogli e amanti.

Sangueearena

Tra i film più importanti di quel periodo si segnala la partecipazione a Sangue e Arena di Rouben Mamoulian del 1941 dove Quinn è Manolo de Palma, amico/rivale del torero Juan Gallardo (Tyrone Power) che butta al vento famiglia e carriera per la sensuale Rita Hayworth, Dona Sol.

Vivazapata Deluso dalla carriera cinematografica che non gli permette di uscire dal ruolo di caratterista, nel 1947 Anthony Quinn decide di concentrarsi sul teatro e a Broadway recita la parte di Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio. Elia Kazan, regista sia della versione teatrale che quella cinematografica con Marlon Brando del 1951, nota l’interprete e lo vuole per il suo prossimo film con Brando, Viva Zapata! Anthony Quinn veste così i panni di Eufemio Zapata il fratello maggiore di Emiliano vincendo il suo primo Oscar da attore non protagonista e dando una svolta decisiva alla sua carriera che in quei primi anni ’50 lo porta in Italia e ne fa uno dei protagonisti della Hollywood sul Tevere, i ruoli sarebbero sempre quelli da latino intenso come in Cavalleria Rusticana di Carmine Gallone o da eroe omerico come nell’Ulisse di Mario Camerini dove interpreta Antinoo capo dei Proci, ma l’incontro con Fellini gli regala un personaggio scolpito nella storia del cinema, il rude saltimbanco Zampanò de La strada.

Lastada

Gobbonotredame Chiusa la parentesi italiana Quinn punta al suo secondo oscar da attore non protagonista interpretando Gauguin in Brama di vivere (1956) il biopic che  Vincente Minnelli dedica alla vita di Van Gogh interpretato da Kirk Douglas. Nello stesso anno veste i panni di Quasimodo ne Il Gobbo di Notre Dame nella versione di  Jean Delannoy, (prima trasposizione a colori del celebre romanzo di Hugo), nel ruolo della zingara Esmeralda c’è un’incantevole Gina Lollobrigida.
Negli anni seguenti, tra western (Ultima notte a Warlock) e film di guerra (I cannoni di Navarone) o storici (Lawrence d’Arabia) Anthony Quinn diventa il prototipo del duro come recita anche il titolo italiano di Requiem for a Heavyweight : Una faccia piena di pugni, film sulla box dove ha un ruolo anche Cassius Clay ma sarà un ruolo completamente diverso, quello dell’inguaribile ottimista Alexis Zorba di Zorba il Greco a diventare il suo film più celebre ma di certo non il migliore.

Zorbailgreco

La carriera dell’attore prosegue, praticamente senza sosta, fino alla fine degli anni ’90 ma le opere degne di note sono davvero poche (personalmente lo ricordo come il Caifa nel celeberrimo sceneggiato Rai Gesù di Nazareth di Zeffirelli) o il ruolo principale ne Il leone del deserto, celebrazione del ribelle libico Omar Mukhtar contro l’invasione fascista guidata da Graziani. Prodotto da Gheddafi nel 1981 il film è stato vietato in italia per circa 30 anni e solo intorno nel 2009 Sky lo ha messo in programmazione, in occasione della visita romana del colonnello libico.
Sempre dedito all’arte, Anthony Quinn siè fatto anche una certa fama come scultore e pittore e ci ha lasciato due autobiografie: Il peccato originale (1972) e One Man Tango del 1997.
L’attore si è spento a 86 anni il 3 giugno 2001.

Palcoscenico

aprile 20, 2015

Palcoscenico Stage door
USA 1937 RKO
con Katharine Hepburn, Ginger Rogers, Adolphe Menjou, Lucille Ball, Eve Arden
regia di Gregory La Cava

Una ricca ereditiera decide di fare l’attrice e si trasferisce a vivere a New York in un pensionato per artiste sotto il falso nome di Terry Randall; a sua insaputa, il padre le fa avere la parte principale in una commedia che l’anno prima aveva dato fama a un’altra pensionante, Kay che ora non riesce a a trovare più una scrittura e proprio la sera della prima si suicida. Terry, che recitava da cane, sconvolta dalla notizia, trova dentro di sé un inaspettato talento drammatico.

Come sempre la tematica principale dei film di La Cava è il rapporto con il denaro e Palcoscenico non viene meno a questa regola, offrendo uno spaccato molto realistico della vita delle aspiranti attrici di Broadway; per certi versi è un film corale che descrive diverse figure: la ragazza disposta a tutto pur di far carriera (più di una per la verità anche se la Jean Maitland interpretata dalla coprotagonista Ginger Rogers finisce per innamorarsi del produttore); Judy (Lucille Ball) che accetta tutti gli inviti dei provinciali che arrivano a New York per scroccare un pranzo e finisce per sposarsene uno e tornare nel Midwest; il drammatico personaggio di Kay che ha assaporato il successo ma ora rischia di morire letteralmente di fame e sarà proprio Terry a pagarle, senza che Kay lo sappia, le cure del medico.

Stagedoor

Terry è la ricca ereditiera animata di buoni propositi che dispensa buoni consigli a tutti: dalla sua posizione privilegiata pensa che per riuscire nella vita basti l’impegno, per questo gira con la foto del nonno pioniere che ha fondato la dinastia. Non avendo mai sperimentato le delusioni della vita che vanno oltre al darsi da fare, non può recitare il ruolo della protagonista della commedia Incanto di’aprile, almeno fino a quando non proverà sulla propria pelle il vero dolore per la morte di Kay, pur non avendone nessuna diretta responsabilità.
Il film si regge sullo scontro tra Jean e Terry, opposte per estrazione sociale e temperamento che si trovano a dividere la stessa stanza e finiscono per diventare amiche, le interpretano magistralmente due attrici a un punto cruciale del loro percorso artistico: per Ginger Rogers è il primo tentativo di affrancarsi dal musical e dall’accoppiata con Fred Astaire mentre per Katharine Hepburn è l’occasione per scrollarsi il marchio di veleno dei botteghini e riprendere in mano la propria carriera che negli anni immediatamente seguenti le avrebbe portato i magnifici ruoli di Susanna e Scandalo a Filadelfia.

I Tenenbaum

aprile 16, 2015

Itenenbaum The Royal Tenenbaums
Usa 2001
con Gene Hackman, Anjelica Huston, Ben Stiller, Gwyneth Paltrow, Luke Wilson, Owen Wilson, Bill Murray, Danny Glover
regia di Wes Anderson

I tre fratelli Tenenbaum sono trentenni insoddisfatti: tutti geniali nell’infanzia, hanno, in un modo o in altro, deluso le loro potenzialità nella vita adulta. La colpa è probabilmente del padre, Royal Tenenbaum, marito scapestrato e padre distratto che ha ben presto abbandonato il nucleo famigliare. Quando l’uomo viene a sapere che la moglie sì è nuovamente innamorata decide di tornare a casa, fingendosi in fin di vita. Benché non parlino col il padre da anni, alla notizia fanno rientro anche i giovani Tenenbaum..

All’inizio degli anni 2000 il tema della mancanza del padre nella cinematografia americana era un argomento molto cavalcato dalla critica e il simpatico filibustiere Royal Tenenbaum appartiene per certi versi a questa categoria anche se è uno dei pochi (forse l’unico) che tenta di redimersi e riconquistare l’affetto dei figli: la famiglia Tenenbaum resta comunque disfunzionale ma riconquista una nuova serenità e il coraggio di riprendere in mano la propria vita.
Visto oggi per la prima volta il terzo lungometraggio di Wes Anderson (l’ultimo scritto insieme a Owen Wilson) perde molto della sua dirompente forza visiva, dato che l’autore non è più un regista di nicchia ma è notissimo al grande pubblico grazie agli Oscar, e agli altri premi, vinti da Grand Budapest Hotel. Ci si è quindi abituati al suo mondo coloratissimo fatto di minuziose ricostruzioni, personaggi che indossano sempre lo stesso costume come i protagonisti dei cartoni animati (nello specifico I Tenenbaum vuole omaggiare il mondo dei Peanuts).
Resta quindi la storia che, nell’ormai caratteristico stile agrodolce di Anderson, stigmatizza tic e abitudini della società e della famiglia americana, dalla imperativo di avere successo nella vita, alla possibilità di avere sempre una seconda occasione.
I geniali Chas, Margot e Richie sono bambini talentuosi iperstimolati dai genitori, in particolare la madre, a seguire le proprie inclinazioni ma impreparati ad affrontare le delusioni della vita soprattutto in campo sentimentale ecco allora che Chas, il mago della finanza, diventa un padre iperprotettivo e un uomo insicuro ed astioso (sarà quello ad avere più difficoltà a riconciliarsi con il padre) dopo la prematura scomparsa della moglie in un incidente aereo; Margot, drammaturga precoce, subisce da sempre il fatto di essere la figlia adottiva e nasconde le sue insicurezze dietro la ferrea riservatezza personale che le permette di avere una vita promiscua alle spalle dell’ignaro marito. Richie si scopre innamorato della sorella e pone fine ingloriosamente alla sua carriera tennistica proprio qualche giorno dopo il matrimonio di Margot e quando viene a sapere e che la sorella adottiva è a conoscenza dei suoi sentimenti tenta il suicidio.
Il ritorno di Royal mette tutti di fronte alle proprie debolezze e la caparbia leggerezza con cui l’uomo vuole ottenere nuovamente l’affetto della famiglia scioglierà lentamente ogni tensione ricompattando il nucleo famigliare.
La pellicola è diventata ben presto un film di culto grazie anche alla strepitosa colonna sonora che potete trovare elencata nella pagina wikipedia dedicata al film.

Gli amanti del sogno

aprile 10, 2015

Love Letters
USA 1945 Paramount
con Jennifer Jones, Joseph Cotten, Ann Richards
regia di William Dieterle

Gliamantidelsogno

Durante la Seconda Guerra Mondiale, il soldato Allen Quinton scrive lettere d’amore per conto del commilitone Roger Morland. Rimpatriato per una ferita, Quinton, grazie ad un’eredità, va a vivere vicino al luogo dove abitava Victoria, la ragazza di Morland e scopre che i due sono morti poco dopo essersi sposati ma tutti sono reticenti a proposito della tragedia. Allen conosce e si innamora di Singleton, una ragazza che ha perso la memoria: si tratta di Victoria rimasta traumatizzata per aver ucciso Roger. Quinton decide di sposarla pur sapendo che la donna potrebbe impazzire se scoprisse che lui è l’autore delle lettere che l’hanno fatta innamorare dell’uomo che ha ucciso..

Alanletter Arrivato alla corte del tycoon David O. Selznick, (a proposito pare che la lettera dell’inquadratura iniziale sia scritta di suo pugno, fonte NoirGirl) William Dieterle ne dirige la bellissima moglie Jennifer Jones in due fim che vedono come coprotagonista Joseph Cotten, il secondo è Il ritratto di Jennie (1948), un capolavoro del genere fantastico dove un pittore ottiene la fama dipingendo il ritratto di una fanciulla che incontra sempre al parco salvo poi scoprire che la ragazza è morta da anni. Il primo è questo ormai misconosciuto Gli amanti del sogno, dove alcune atmosfere mistery anticipano già il mood fantastico de Il ritratto di Jennie: la comparsa di una donna misteriosa che ricorda solo il proprio cognome, Singleton, gioca molto con l’ambiguità del revenant, facendo da contrappunto al latente senso di colpa di Quinton che sa di aver contribuito a far innamorare la ragazza di un uomo che non esiste.
La lenta riscoperta dei ricordi drammatici della vita con Morland, ubriacone e violento, ben diverso dall’uomo di cui Victoria si era innamorata rientra invece in quel genere di melodrammi alla cui trama si applicavano le tematiche psicanalitiche, alla La donna dai tre volti del 1957, per citare la pellicola più celebre del filone.
Il coraggio viene forse a mancare nel finale dove tutto si scioglie nell’happy end e si scopre che Victoria non è nemmeno colpevole di omicidio, resta però il merito di aver giocato tutto il tempo con le atmosfere noir oscillando tra il rischio della follia incombente di Victoria e un piccolo dubbio che la protagonista possa anche fingere l’amnesia, merito della bravissima Jennifer Jones che per questa pellicola fu candidata all’Oscar come miglior attrice.

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Gli amanti del sogno, pur non vincendo nessuna statuetta, collezionò in tutto quattro candidature tra cui quella per la miglior colonna sonora e la canzone Love Letters viene riproposta in Velluto blu (fonde imdb) mentre la locandina della pellicola compare nel film di Yasujirô Ozu Una gallina nel vento del 1948 (fonte FreeCinema)

La rosa purpurea del Cairo

aprile 7, 2015

Larosapurpureadelcairo The Purple Rose of Cairo
USA 1985
con Mia Farrow, Jeff Daniels, Danny Aiello, Dianne Wiest, Van Johnson
regia di Woody Allen

Nel New Jersey, durante la Grande Depressione, Cecilia, cameriera sbadata e moglie infelice del beone Monk, trova conforto ai suoi guai sognando con le esotiche pellicole sentimentali del cinema Gioiello. Un giorno, all’ennesima visione de La rosa purpurea del Cairo, Tom Baxter, un personaggio del film si accorge di Cecilia e esce dallo schermo per dichiararle il suo amore..

Il film è certamente un atto d’amore nei confronti del cinema da parte del regista Woody Allen che però è ben conscio che la magia del cinema, dal potere consolatorio soprattutto per le masse, è frutto di un’industria ben organizzata quindi la fuga dallo schermo di un attore, pure se con una parte secondaria, non viene ignorata dal produttore della pellicola disposto anche a rimetterci del denaro purché tutto torni nella norma, anche perché l’ammutinamento di un singolo Tom Baxter ha ripercussioni anche nelle altre proiezioni del film.
L’ordine va ristabilito senza farsi troppi scrupoli e a questo pensa spontaneamente Gil Sheperd, l’attore emergente che ha dato vita a Tom Baxter, disposto a tutto pur di non farsi rovinare la carriera dal bizzarro incidente, anche fingersi innamorato di Cecilia per distoglierla da Baxter che respinto, dovrà rientrare nella pellicola. La figura della protagonista, così ingenua e remissiva, è quella di una vittima predestinata, prima del marito ubriacone e manesco e poi di Sheperd.
L’opera procede anche su un altro piano, raccontando lo scompiglio tra gli altri protagonisti del film dall’uscita dallo schermo del loro collega: tra il timore e la rabbia per la stranezza dell’evento e le imprevedibili conseguenze, esce la rivalità dei vari attori, tutti convinti di interpretare il ruolo fondamentale della pellicola. Assieme alle reazioni stizzite del pubblico, questa parte è il contrappunto ironico al malinconico destino di Cecilia, di stampo più teatrale: sembra di assistere alle prove di una piéce e la fuga di Baxter diventa il concreto sfondamento della quarta parete.

World War Z

aprile 3, 2015

USA 2013
con Brad Pitt, Mireille Enos, Daniella Kertesz, Elyes Gabel, James Badge Dale, Pierfrancesco Favino
regia di Marc Forster

WorldWarZ

Improvvisa e virulenta infezione trasforma gli esseri umani in zombie che attaccano le altre persone contagiandole. Gerry Lane, agente Onu a riposo, si trova in mezzo al traffico di Filadelfia quando esplode il contagio, contatta i vecchi colleghi di lavoro e viene imbarcato su una nave che preserva i sopravvissuti, ma l’imbarco va guadagnato con la collaborazione e Gerry viene mandato come agente di copertura di un giovane virologo alla ricerca del paziente zero in Corea del Sud ma non appena giunti sul posto il gruppo viene attaccato e il virologo ucciso: Gerry girerà mezzo mondo per capire come debellare la malattia e potersi riunire all’amata famiglia.

World war z

Brad Pitt se la canta e se la suona in questo film di cui è anche produttore oltre che eroico protagonista, sempre in scena, inossidabile e bidimensionale come il protagonista dei più truci(di) action movie degli anni ’80.
Non era facile produrre una sceneggiatura da un romanzo strutturato come una raccolta di testimonianze sulla tremenda guerra agli zombie, le molte mani che si sono succedute hanno messo insieme i topos più classici: anche la subitanea morte del ricercatore non è un colpo di scena così inopinato, ovviamente una conversazione superficiale durante il viaggio è sufficiente per fare intuire al nostro eroe la soluzione per sconfiggere il proliferare dell’infezione.

Worldwarz

Non è che ci si aspetti grandi alzate d’ingegno dai film d’azione però oltre alle note critiche sul’utilità del muro che protegge Israele dalla furia degli zombie, è da stigmatizzare anche la rappresentazione femminile che scade nel più bieco maschilismo con la dolce mogliettina e le figliolette un po’ sfigate una asmatica e l’altra a perenne rischio di attacco di panico, a differenza dello sveglissimo maschietto ispanico che la famiglia accoglie mentre Segen, la soldatessa israeliana che diventa compagna di viaggio del protagonista è resa il più androgina possibile: irritante.

Ho ucciso Napoleone

aprile 2, 2015

Houccisonapoleoneloc Anita Petroni, manager in carriera che ha trascorso tutta la vita per diventare fredda ed anafettiva, proprio il giorno in cui raggiunge il successo professionale scopre di essere incinta del suo capo e il giorno dopo viene licenziata in tronco. Anita non si perde d’animo e manipolando il timido avvocato dell’azienda, realizza la sua vendetta anche grazie all’aiuto di altre donne disperate conosciute ai giardinetti: ma se avesse completamente sbagliato obbiettivo?

La regista Giorgia Farina mette un po’ troppa carne al fuoco di una commedia che ha anche delle trovate divertenti e il “club” delle disperate che si ritrovano ai giardinetti alla corte dell’ex segretaria di uno studio medico che grazie al ricettario smercia di tutto, dagli ansiolitici agli anoressizzanti è la perla del film.
Anche l’idea per uscire dal solito cliché tele/cinematografico della manager arrivista che si scopre un cuore d’oro non è niente male purtroppo viene a mancare un unico registro stilistico: se la commedia virata in fiaba dark grazie al look della protagonista ispirato alla Regina di C’era una volta con tanto di invettiva malefica in una notte di tuoni e saette è stato il motivo che mi ha portato in sala, dopo il colpo di scena tutto si falda, dallo stile narrativo ad alcuni snodi del plot che vengono tirati via.
Altrettanto confuse sono le tematiche del femminile sempre appena accennate e mai portate a fondo con coerenza. Il triangolo Anita, Paride (il suo capo e padre di suo figlio) e Biagio (l’avvocato che Anita sfrutta per la vendetta) è formato da tre elementi disfunzionali ma per tutti la spiegazione sta in un simpatico siparietto sulla difficile infanzia con genitori inadeguati e viene solo da chiedersi perché questi tre così segnati dal rapporto parentale ci tengano così tanto a essere a loro volta genitori, sì certo all’inizio è un figlio non voluto ma con il suo arrivo tutto si aggiusta perché che l’arrivo di un bebè sia sempre la soluzione deus ex machina è un cliché di cui il cinema italiano non si potrà mai liberare, ben più inamovibile di quello trito della donna che ha smesso di mangiare pasta da anni per mantenere la linea.