Secondo film della sezione Una questione di vita o di morte introdotto dal Guest director del TFF, Julien Temple poco prima di presentare il suo ultimo film, The Ecstasy of Wilko Johnson. Il regista ha detto che La Bella e la Bestia di Cocteau è diventato il suo film preferito dopo aver portato a vedere la versione Disney alla figlia di 4 anni. Alla piccola non era piaciuto il cartone e allora il padre le ha detto che c’era quest’altra versione che è diventato il film che per sei mesi la figlia di Temple ha voluto vedere tutte le sere. Domandatevi quindi se ai vostri figli piace Peppa Pig o va bene a voi..
La belle et la bête
Francia 1946
con Jean Marais, Josette Day, Michel Auclair, Christian Marquand
regia di Jean Cocteau
Un mercante perde ogni avere con l’affondamento delle sue navi, le due figlie maggiori continuano a fare la bella vita come se nulla fosse, il maschio Ludovic vive di espedienti e firma cambiali mentre Belle si dedica alla casa e per restare vicina al padre rinuncia all’amore di Avenant, l’amico del fratello. Andato in città per risolvere la situazione, il padre di Belle si perde nella foresta ma trova rifugio in un castello misterioso; quando coglie una rosa del giardino per Belle compare la Bestia che gli chiede la vita in cambio del fiore. Magnanimo il mostro concede all’uomo di tornare a casa per vedere se uno dei suoi figli è disposto a sacrificarsi al suo posto e subito Belle accetta lo scambio. Conquistata dalla bontà della Bestia, Belle chiede una settimana per tornare a casa in visita al padre: i fratelli cercheranno di trattenerla per far morire la Bestia e trafugargli le ricchezze.
Il prologo scritto in apertura ci dice che La Bella e la Bestia è una fiaba dove si chiede allo spettatore di tornare bambino e accettare il mondo fantasioso della vicenda e Cocteau è fedele a quanto premesso costruendo un film fantastico ricco di invenzioni sceniche, dai costumi fastosi. Il trucco di Jean Marais è passato alla storia perchè comportava quattro ore al giorno per trasformarlo nella Bestia ma l’effetto è strabiliante: sa essere pauroso ma anche divertente quando si muovono le orecchie della Bestia.
Alla ricchezza visiva fa da contraltare la morale semplice della favola sottolineata ulteriormente dal personaggio di Avenant, belloccio ma senza cuore: la morte contemporanea del gaglioffo e della Bestia dall’animo buono ristabilisce il legame tra bellezza interiore e quella esteriore: la bestia diventa il principe e Avenant assume i tratti bestiali propri del suo carattere.
Le sequenze più immaginifiche sono quelle inerenti il castello della Bestia con i candelabri tenuti da un braccio umano che si accendono al passaggio di chi entra. Anche le statue che decorano il camino sono viventi, sbuffano il fumo dal naso e i loro occhi accompagnano i movimenti della macchina da presa. Cocteau si ricorda perfettamente dei suoi trascorsi surrealisti: le tende che svolazzano nei corridoi ricordano La caduta di Casa Usher di Jean Epstein, le lacrime di cristallo di Belle rammendano la celebre foto di Man Ray, Les Larmes.
La presenza dello specchio, il più potente dei simboli magici legati alla Bestia, è anche l’elemento principale del primo film surrealista di Cocteau, Le Sang d’un poète del 1930.
Le atmosfere create dal regista sono così intense da diventare reali e far accettare anche la recitazione forzata ed artefatta dei protagonisti, soprattutto di Belle quando si aggira nel castello, così calcata da risultare quasi caricaturale.
Jean Marais ha un triplo ruolo. la Bestia, il bell’Avenant e il principe che compare solo nel finale che è piuttosto insignificante, tanto da far sottoscrivere quel che disse la Garbo alla fine del film: Rivoglio la Bestia!
Guest director del 33 Torino Film Festival è stato Julien Temple, grande protagonista della stagione britannica dei videoclip (tra tutti ricordiamo Do You Really Want To Hurt Me dei Culture Club), da sempre legato alla musica che ora approfondisce in documentari come Oscenità e Furore o Il futuro non è scritto. Il suo ultimo lavoro è The Ecstasy of Wilko Johnson, dedicato agli ultimi mesi di vita dell’attore, cantante, bassista dei Dr. Feelgood. Per rappresentare visivamente il flusso di idee di Wilko, Temple ha usato spezzoni di film che sono confluiti nella sezione da cui curata per il TFF.
Il film di apertura del ciclo è stato A matter o life and death (Scala al Paradiso) che ha dato anche il nome alla rassegna: Una questione di vita o di morte.
GB 1946 Rank
con David Niven, Kim Hunter, Roger Livesey, Marius Goring
regia di Michael Powell e Emeric Pressburger
Il due maggio 1945 Peter Carter, pilota della Raf comunica con un’ausiliaria americana d’istanza sulla Manica le sue ultime volontà: il paracadute si è lacerato durante l’attacco nemico, il secondo pilota è morto e l’aereo è in fiamme, a Peter non resta che lanciarsi e andare in contro a morte certa. Il colloquio con June assume toni sempre più intimi e tutt’e due restano turbati. Peter si risveglia miracolosamente illeso vicino alla postazione dove vive June e tra i due nasce l’amore. In Paradiso, però, attendono l’arrivo di Peter: a causa della nebbia l’incaricato di recuperarlo lo ha perduto e ora si presenta a reclamarlo ma Peter rifiuta la chiamata a cui solo poche ore prima era rassegnato e si appella in nome dell’amore nato dall’errore dell’incaricato.
Sulla Terra i suoi racconti vengono scambiati per farneticazioni e il dottor Reeves scopre che Peter soffre di una commozione cerebrale latente che poterebbe diventare letale da un momento all’altro quindi invita il pilota a sottoporsi subito ad un intervento chirurgico. Mentre Peter si appresta ad entrare in sala operatoria, il dottore muore in un incidente e diventa l’avvocato difensore di Peter nel processo in Paradiso per valutare il caso dell’aviatore.
Scala al paradiso sarebbe un semplice film di propaganda per la distensione dei rapporti tra Usa e Inghilterra dopo la guerra ma il duo Powell&Pressburger ne fa un capolavoro del genere fantasy (ricordiamo che sono gli autori del meraviglioso Scarpette Rosse).
L’idea più originale è quella di girare le scene ambientate in Paradiso in bianco e nero mentre la parte che si svolge sulla Terra è in uno smagliante technicolor. Il Paradiso del resto è un luogo ordinatissimo, dove tutti sono schedati dalla nascita in un rapporto che contiene tutti gli estremi della loro esistenza: insomma un luogo pacifico ma noiosamente burocratico. Il technicolor della Terra rappresenta invece tutta la passione della vita dove dalla rassegnazione per la morte può sbocciare improvvisamente un amore nascente: non per nulla l’adorabile incaricato, un nobile francese ghigliottinato durante la Rivoluzione, sospira sognando anche un Paradiso a colori. Va ricordato che il film è del 1946, a guerra appena finita, per cui la celebrazione della vita è quanto meno doverosa.
Il fantasy si vena di surrealismo nella celebra soggettiva dell’occhio di Peter sul tavolo operatorio, con tanto di palpebre e ciglia che si chiudono. Anche la teoria di ali che introduce al Paradiso ha un che di surreale mentre è divertente la consegna delle ali ai nuovi arrivati, imbustate come abiti freschi di tintoria.
Altre soluzioni memorabili sono i fermo immagini nel momento dei passaggi temporali tra mondo terreno e vita ultraterrena: la prima volta che accade fa pensare a uno strappo della pellicola o il pessimo sistema di fermare i film per l’intervallo nelle multisale odierne.
Il processo finale è ancora un’esaltazione dei valori universali di fraternità e amore con l’intervento di Peter e June disposti a sacrificarsi perché l’altro viva.
La scala mobile che unisce i due mondi ha dato vita al titolo italiano e americano del film, Stairway to Heaven e sì, il celebre brano dei Led Zeppelin si ispira a questo film.
Durante la festa dei Krampus, a Croce di Fassa, si perde il piccolo Tommi di soli quattro anni. La scomparsa si trasforma in un’ipotesi di omicidio di cui è indiziato il padre, Manuel che ha problemi di alcolismo e non è originario del luogo, la madre, Linda, distrutta dal dolore, tenta il suicidio.
Cinque anni dopo, a Napoli viene ritrovato un bambino che ha lo stesso profilo genetico di Tommi ma il reinserimento in famiglia non è per niente facile..
Obbiettivamente siamo stati fortunati, la morbosa attenzione che l’infotainment televisivo riserva alla cronaca nera avrebbe potuto sfociare in qualche pessimo instant movie o qualche miniserie strappalacrime, invece nella medesima stagione abbiamo avuto la bella serie Rai Non uccidere e ora questo film prodotto da Sky, dove si mescolano gli echi di diversi delitti che hanno monopolizzato l’attenzione pubblica. In fondo al bosco è una pellicola più complessa di quello che appare, con diversi piani di lettura legati alla famiglia: l’infanzia negata di un bambino che non ha memoria del traumatico passato, il dramma di una famiglia impossibilitata a ritrovare la pace dopo una tragedia, il legame di Manuel con il figlio ritrovato che rappresenta anche il desiderio di rivalsa dell’uomo che per cinque anni è stato creduto un mostro.
La disfunzionalità della famiglia e delle piccole comunità dove è più facile attribuire al diavolo le più banali (!) colpe umane trova la sua ragion d’essere nel racconto di genere, un noir dai toni e dai ritmi sospesi, sfumati che lascia spazio all’allusione horror per trovare una soluzione molto realistica e quanto mai attuale nel finale, ben più terribile di qualsiasi favola demoniaca.
Ottima la prova degli attori, soprattutto di Filippo Nigro.
Chappie, 2015
con Dev Patel, Hugh Jackman, Sigourney Weaver, Yolandi Visser, Watkin Tudor Jones
regia di Neill Blomkamp
Johannesburg è la prima città a dotarsi di robot poliziotti e con l’arrivo degli Scout, robot dotati di una propria intelligenza artificiale, l’emergenza criminalità diminuisce in brevissimo tempo. Una delle ultime gang rimaste decide di fare in modo di bloccare i robot per poter mettere a segno un colpo e rapisce Deon, l’ingegnere della Tetravaal, la ditta costruttrice. Proprio quel giorno Deon aveva rubato un’unità destinata al macero per testare un nuovo software di intelligenza artificiale in grado di evolversi da sola, i malviventi decidono di farne un gansta robot..
Dopo l’esperienza americana di Elysium (pessima a quanto dicono tutti ma io non ho visto il film) Neill Blomkamp torna ad ambientare il suo ultimo film in patria, in Sudafrica, sfruttando i ghetti come nell’esordio trionfante di Distric 9 e per il soggetto sviluppa un suo corto del 2004.
Il risultato però non è esaltante anche se io l’ho trovato piacevole dopo i primi momenti di spiazzamento riguardo alle figure dei gangster dal cuore tenero che si trovano a svezzare un robot appena creato, lato buffo ovviamente sottolineato dal doppiaggio con le voci più comiche e mielose che possa offrire il settore italiano.
Il robot neonato ha le movenze di un cucciolo (tutta la mimica è affidata alle due alette/antenna che funzionano come le orecchie di un animale rivelando curiosità, paura ecc..) e da subito viene soprannominato Chappie, proprio come un cane.
Tra il creatore Deon che cerca di fare in modo che la sua personalità possa svilupparsi liberamente, la materna Yolandi e il burbero Ninja che vuole da subito un robot che sappia essergli utile per i suoi scopi, Chappie deve barcamenarsi tra diverse esperienze, sul modello di Pinocchio.
Il problema principale è che Chappie ha solo cinque giorni da vivere perché la batteria dell’unità usata per crearlo non è più ricaricabile, in questo breve lasso di tempo Chappie attraversa tutte le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza: timido e curioso come un bambino piccolo, spaventato dall’incontro con il mondo, convinto di essere indistruttibile, in conflitto con la figura del creatore, ingannato dal padre Ninja, costretto ad affrontare l’idea della morte prima di un cane, poi scoprendo di aver poco tempo da vivere e infine dovendo affrontare la morte effettiva dei propri cari che il robot risolverà in modo geniale. Humandroid è forse il primo film di fantascienza su un’A.I. dove il tema si coniuga con la commedia e non con il dramma, un’ibrido bizzarro ma interessante che forse aprirà un nuovo filone.
The Glass Bottom Boat
USA 1966
con Doris Day, Rod Taylor
regia di Frank Tashlin
La giovane vedova Jennifer Nelson lavora presso un centro spaziale e nei fine settimana si esibisce come sirena per i clienti del padre che ha un battello turistico dal fondo trasparente. Durante una delle sue esibizioni come sirena la donna viene arpionata da Bruce Templeton, l’aitante scienziato a cui si deve il successo dell’agenzia spaziale. Ritrovatisi sul posto di lavoro tra i due nasce l’amore ma i comportamenti bizzarri di Jenny la fanno credere una spia con l’intento di trafugare i progetti di Templeton..
La mia spia di mezzanotte è uno degli ultimi film di Doris Day che si sarebbe ritirata dal cinema nel 1968 per dedicarsi al suo show televisivo. Anche per il regista Frank Tashlin, storico regista dei film di Jerry Lewis, da solo o in coppia con Dean Martin, questa pellicola rappresenta uno degli ultimi lavori.
Si tratta della classica commedia interpretata da Doris Day: donna piacente che deve salvarsi dalle avances degli uomini prima di convolare a giuste nozze con protagonista.
Tashlin cerca di dare una svolta sexy all’attrice quarantenne ma quello che funziona di più, e conferma il talento di doris Day per la commedia, sono le gag di cui l’imbranata Jenny è protagonista, diventando quasi un alter ego femminile di Jerry Lewis. Il rapporto della donna con la tecnologia domestica di cui Templeton è fanatico, mi ha fatto addirittura ricordare Mon Oncle di Jacques Tati.
Negli anni dell’esaltazione per la corsa nello spazio tutto nel film è ultramoderno e tecnologico, innestando la commedia sentimentale in un contesto giallo rosa di spie da mezza tacca e altre ben più pericolose.
Doris Day fa anche una parodia di sé stessa cantando in maniera dissacrante Que sera, sera, il brano che interpreta ne L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock.
La “villa dei capolavori”, così viene chiamata la villa che ospita la Fondazione Magnani Rocca perché la residenza del collezionista e critico d’arte Luigi Magnani vanta una collezione invidiabile che va maestri come Filippo Lippi o Gentile da Fabriano fino a Monet, Renoir, Matisse, passando per Tiziano, Durer, De Chirico senza dimenticare la serie di 50 Morandi. Oltre alla quadreria permanente la villa ospita anche importanti mostre tematiche, quella dedicata a Giacomo Balla resterà aperta fino all’8 dicembre 2015.
L’occasione è quella di celebrare il centenario della pubblicazione del manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo firmato da Balla e Depero e tutta l’opera dell’artista viene ripercorsa in sezioni che riprendono le parole chiave del testo.
Si parte dai primi lavori d’impronta divisionista che dimostrano da subito come lo studio di Balla sia rivolto soprattutto al colore e alla luce. Spicca in questa sezione la bellissima Fontana che piange, un’opera mai esposta in precedenza, di grande impatto anche la Finestra di Düsseldorf.
Del periodo prettamente futurista, nella sezione movimento colpiscono gli studi sul movimento che portano a Volo di rondini.
Largo spazio viene dato alla figura femminile, dal primo pastello della moglie, Elisa che cuce ai ritratti delle figlie, ai nudi ma soprattutto la presenza del capolavoro Dubbio di cui è intrigante anche la cornice quasi architettonica voluta da Balla stesso.
L’indagine sul movimento del pittore sfocia naturalmente nella tridimensionalità delle sculture e come per alti futuristi l’arte si riflette su tutti gli aspetti della vita ecco allora i vestiti futuristi ideati da Balla per sé e per la moglie o le figlie.
Sono presenti anche mobili che provengono dalla casa di Balla nella speranza che presto la sua casa studio venga aperta al pubblico.
Ultima chicca: fino all’8 dicembre alla Fondazione Magnani Rocca è visibile anche La sedia di Van Gogh (1888) prestata dalla National Gallery di Londra in cambio de La famiglia dell’infante don Luis di Goya.
USA 1996 Universal
con Jack Nicholson, Glenn Close, Annette Bening, Pierce Brosnan, Danny DeVito, Martin Short, Sarah Jessica Parker, Michael J. Fox, Rod Steiger, Tom Jones, Lisa Marie, Sylvia Sidney, Jack Black, Natalie Portman, Pam Grier
regia di Tim Burton
I marziani invadono la Terra ma i consiglieri del Presidente degli Stati Uniti ritengono che essendo una civiltà più evoluta della nostra abbia solo intenti pacifici, invece i marziani si rivelano cattivissimi e con la sola volontà di distruggerci. Quando tutto sembra perduto, viene scoperta del tutto casualmente l’insolita ”arma” che li neutralizza..
Nel pieno della stagione catastrofista del cinema anni ’90, Tim Burton regala un geniale sberleffo alle ansie millenaristiche e alla retorica militarista riesumando i marziani di una vecchia serie di cartoline dei tardi anni ’50, serie che fu presto interrotta perché ritenuta diseducativa.
Pur essendo perfidi, i marziani dalla testa di teschio e il cerebro spropositato pieno di una poltiglia verde, risultano più simpatici dell’umanità gaglioffa e idiota che sono venuti a distruggere: il potere borioso ma incapace rappresentato dal Presidente degli Stati Uniti interpretato da Jack Nicholson in gran forma con accanto una strepitosa First Lady interpretata da Glenn Close; l’esaltazione guerrafondaia dell’esercito più potente del mondo, anche se una volta tanto l’aggressivo generale (Rod Steiger) aveva ragione, la vanità rappresentata dai mass media: Sarah Jessica Parker (pre Sex and the city) che tiene sulla corda il collega Michael J.Fox e finisce per innamorarsi del consigliere del Presidente, (Pierce Brosnan). Jack Nicholson interpreta anche Art Land, l’imprenditore di Las Vegas mosso solo dal denaro: “I Marziani che arriveranno avranno bisogno di un letto, di stare comodi come chiunque altro” Come sempre Burton salva i ragazzini: l’annoiata figlia del presidente Natalie Portman che si troverà a farne le veci quando la guerra sarà finita, i figli dell’ex campione del mondo di pugilato ora costretto a mantenersi facendo il faraone al Luxor, l’hotel/attrazione di Las Vegas dedicato agli egizi: Byron Williams è l’unico vero eroe che si sacrifica per aiutare Tom Jones (!) e una manciata di sopravvissuti a fuggire da Las Vegas: rimasto alla mercè dei marziani lo ritroviamo nel finale sulla soglia di casa, senza un graffio come un vero eroe degli action movie, reso ridicolo dal costume da faraone.
A salvare il mondo è ovviamente il più sfigato di tutti, Richie Norris, fratello di Billy Glenn, militare volontario contro gli alieni (un irriconoscibile Jack Black), con l’aiuto inconsapevole della nonna svanita, interpretata dalla stella degli anni ’30 Sylvia Sidney. La fortuita scoperta del potere mortale che la musica amata dalla nonna ha sui marziani, riprende il finale a sorpresa de La Guerra dei Mondi dove gli alieni vengono sconfitti del tutto inaspettatamente dall’atmosfera terrestre e ovviamente quella de La Guerra dei Mondi non è l’unica citazione: i classici sci-fi anni ’50 sono alla base della formazione burtoniana e questa pellicola ne è un omaggio dichiarato.
Sono anni che voglio dedicare un post a Hedy Lamarr ma per un motivo o per l’altro non sono mai riuscita a farlo e da oggi lo ritengo una fortuna visto che se solo l’anno scorso, per il centenario della nascita, avessi scritto un post l’attività scientifica dell’attrice sarebbe stata solo una curiosità a fondo pagina ma da oggi, con il doodle di Google che sancisce nell’importanza della sua scoperta le origini del wi-fi, fondamentale per la nostra tecnologia scrivere un articolo su Hedy Lamarr significa ribaltare il punto di vista ed ecco che la bellissima attrice che non ebbe mai una carriera sfolgorante diventa per Focus “non un attrice qualsiasi” in virtù proprio della sua scoperta.
Leggere i vari articoli che la stampa italiana ha riservato oggi all’attrice onorata da Google è oltremodo divertente con notizie raffazzonate da wikipedia e montate un po’ a casaccio (non faccio il nome di chi ha pubblicato il peggior articolo perché non ne vale la pena).
Di questo passo, tra qualche anno oggi ricorrerà il genetliaco della scienziata che ha aperto la strada al wi-fi incidentalmente attrice con uno spiacevole episodio nell’iniziale carriera europea: essere la prima attrice a mostrarsi in un nudo integrale nel film ungherese Estasi del 1933 diretto da Gustav Machaty, dimenticando che il film non è una commediola sexy come le nostre anni ’70/’80 ma una pellicola di un certo rillievo stilistico inficiata dal finale moralistico. Il film per cui fino a pochi anni fa la Lamarr passava alla storia non compare certo nel doodle dove sono citate solo le pellicole americana ed è ben riconoscibile Sansone e Dalila, forse il suo più grande successo al botteghino.
Non credo che la scelta di Google sia dettata dalla censura del puritanesimo americano: già si fatica ad accettare che la madrina della nostra tecnologia sia una donna bellissima e con una carriera da attrice, che sia anche un’antesignana della liberazione dei costumi è veramente troppo: del resto troviamo impertinente il più grande genio maschile del nostro tempo solo perché mostrava la linguaccia!
Italia 1972 Titanus
con Alain Delon, Sonia Petrova, Giancarlo Giannini, Lea Massari, Alida Valli, Renato Salvatori, Adalberto Maria Merli, Salvo Randone
regia di Valerio Zurlini
Daniele Dominici, professore annoiato e disilluso, accetta una supplenza a Rimini e resta colpito da Vanina, la più bella e la più chiaccherata della classe. La profonda tristezza della ragazza scuote Daniele dalla sua apatia e i due amanti vorrebbero fuggire da tutto, dal ricco fidanzato di lei e dalla moglie di lui ma il loro sogno d’amore non ha futuro.
Un melodramma sentimentale che diventa un ritratto interiore di un uomo, intellettuale disilluso che rifiuta le sue origini altolocate: nel primo colloquio con il preside nega ogni parentela con il famoso generale Dominici, che alla fine del film si scopre essere suo padre. Il disincanto di Daniele nasce dal suicidio di Livia, il primo amore, l’uomo si rifugia nella poesia, tira a campare e insegna quando strettamente necessario. E’ sposato con una donna più vecchia di lui, Monica, e il loro rapporto ormai si trascina stancamente.
Al lasciarsi vivere del professore fa da contraltare la compagnia che si mette a frequentare appena arrivato a Rimini: dei “vitelloni” incarogniti dediti solo alle carte e al sesso. Vanina, che Daniele incontra in classe, frequenta lo stesso giro da cui è stata sedotta giovanissima e ora è fidanzata con il ricco Gerardo. Una serie di personaggi disperati e patetici che si muovono nel grigio di una livida Rimini invernale, la cui malinconia è sottolineata dalla colonna sonora dove urlano disperati i virtuosismi di tromba di Maynard Ferguson. La prima notte di quiete è uno dei film più riusciti di Zurlini che regala ad Alain Delon una delle sue interpretazioni più intense e gli presta i suoi indumenti, il cappotto di cappello e il magliore verde ma i due sul set non si amarono per nulla.
Da ricordare la celebre sequenza in cui Daniele spiega a Vanina la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Morterchi.
Edith Cushing è la figlia di un magnate americano, con il sogno di diventare una scrittrice; quando incontra il baronetto inglese Thomas Sharpe, è subito amore ma Mr. Cushing, che ha fatto condurre delle ricerche sul giovanotto, osteggia il matrimonio costringendo Sharpe a spezzare il cuore alla figlia. Cushing però muore improvvisamente ed Edith, a cui Thomas ha confessato tutto, può coronare il suo sogno d’amore e seguire il marito nella sua magione in Inghilterra, non sapendo che la tenuta è nota anche Crimson Peak, proprio il luogo da cui lo spettro della madre invita Edith a star lontana fin dall’infanzia..
Crimson Peak segna il ritorno di Guillermo del Toro al genere horror, più propriamente al filone gotico con tanto di fantasmi e casa fatiscente.
Le atmosfere gotiche del film sono suggerite da una serie di allusioni, più che citazioni, a tutta la letteratura e la filmografia del genere: uno dei riferimenti più chiari riguarda l’amore impossibile di Thomas che ripropone il melodramma amoroso di Cime Tempestose; la casa fatiscente che sta sprofondando sotto i due fratelli schiavi del loro passato ha reminiscenze de La caduta della casa degli Usher e la determinazione con cui Lucille Sharpe protegge i segreti della magione ricordano (anche nella rigidità della postura) la signora Danvers, la governante di Rebecca la prima moglie.
Da un punto di vista artistico il rifemento va alla pittura preraffaellita e il look di Mia Wasikowska nella desolata Allerdale Hall si ispira chiaramente al quadro di Sir John Everett Millais The Bridesmaid.
L’uso di colori molto saturi richiama il ciclo dedicato a Poe diretto da Roger Corman con Vincent Price per protagonista.
Mille altre suggestioni si possono trovare nell’opera del regista messicano che però non è solo un film calligrafico: se “i fantasmi sono solo una metafora”, come ripete spesso Edith, questa storia per certi versi scontata (anche se si svela a poco a poco) è di grandissima attualità e di grande presa sul pubblico, visto il grande interesse che suscitano gli episodi di cronaca nera che in fondo ripropongono le stesse tematiche del film: passione, gelosia, denaro.