Posts Tagged ‘Elsa’

Il Giovedì

dicembre 20, 2021

Italia, 1964
con Walter Chiari, Michèle Mercier, Roberto Ciccolini, Umberto D’Orsi, Alice Kessler, Ellen Kessler, Silvio Bagolini, Emma Baron, Olimpia Cavalli, Consalvo Dell’Arti, Margherita Horowitz, Gloria Parri, Else Sandom, Sara Simoni, Milena Vukotic, Carol Walker, Siliana Meccale’, Ezio Risi, Salvo Libassi, Edy Biagetti
regia di Dino Risi



Il giovedi'


Dino Versini, quarantenne sfaccendato che vive a carico della compagna Elsa, deve rivedere dopo anni il figlio Roberto, avuto dalla moglie da cui ha ottenuto l’annullamento del matrimonio. Dino usa il suo solito stile fatto di fregnacce per apparire un uomo di successo per farsi bello con il figlioletto ma Robertino, cresciuto in collegio e tra i mille trasferimenti della madre in carriera, intuisce subito il carattere farlocco del genitore. Nonostante questo la giornata trascorsa insieme riesce a riavvicinare padre e figlio.



Il giovedì


Il giovedì non ebbe grande successo all’uscita e fu stroncato anche dalle critiche ma per il regista il film era il più amato tra “i piccolini” cioè le opere minori (cfr. L’avventurosa storia del cinema italiano 1960-69 di Faldini e Fofi) e innegabilmente l’opera ha il merito di regalare la prova cinematografica più riuscita di Walter Chiari.
La struttura del film riprende la struttura narrativa de Il Sorpasso, un viaggio in auto con tappe simili, il mare, la visita ai parenti e addirittura certe inquadrature dei due protagonisti in macchina sono sovrapponibili.



Il giovedì


Già dall’auto, però, si capiscono le differenze dei due film che stanno nell’ulteriore presa di coscienza degli aspetti deleteri del boom economico: ne Il Sorpasso c’è una rombante Lancia Aurelia di proprietà, Dino Versini affitta una vecchia auto americana, che beve come una spugna e che tutti, tranne lui, riconoscono come un vecchio catorcio: se Bruno Cortona rappresenta l’arroganza di chi ha cavalcato il boom, Dino Versini è il simbolo della maggioranza, dei millantatori sempre in cerca della grande occasione per arricchirsi facilmente invece di accontentarsi di un misero stipendio come vorrebbe Elsa, la nuova compagna ormai stufa di mantenerlo e decisa a crearsi una famiglia solida.
Dino rivede il figlio dopo cinque anni in cui la ex moglie se l’è portato in giro per il mondo per esigenze di lavoro. Ovviamente appena arrivato in albergo -in ritardo- l’uomo scambia un altro bambino per il figlioletto di cui non ricorda neppure la data di nascita.
Per impressionare Roberto il padre gli compra un regalo costoso, un Meccano che è già passato di moda, lo porta alle giostre ma quelle che divertono il padre (il cavallo a dondolo) annoiano il figlio e viceversa: sull’ottovolante Dino è terrorizzato mentre il figlio si diverte come un pazzo.
Padre e figlio sono diversissimi: estroverso e fanfarone il primo, riflessivo e introverso il figlio ma entrambi hanno un debole per le donne e Robertino segue ammirato ogni ragazzina che incontra con lo stesso sguardo che il padre riserva a ogni bella donna che incrocia.
Paradossalmente il legame padre – figlio inizia a funzionare più le bugie di Dino vengono scoperte perché il padre si lascia più andare e diventa più spontaneo nei confronti del bambino, il momento perfetto è il gioco sulla riva del fiume dove finalmente i soldi e lo status non sono più importanti ma basta rincorrere una lucertola per essere felici. Momento rovinato dalla confessione del padre di aver letto il diario segreto del figlio quando gli ha tenuto la giacca, fortunatamente torna il sereno nella visita a casa della nonna paterna dove l’incorreggibile Dino entra promettendo l’acquisto di tutti gli elettrodomestici ed esce con i denari datigli dalla madre.



Ilgiovedì


L’ultima tappa presso l’imprenditore che dovrebbe dare a Dino una percentuale sui soldi delle tasse che un amico di Dino gli avrebbe fatto risparmiare è la più disastrosa perché l’uomo viene insultato pesantemente davanti al figlio.
Se la figura del padre sfaccendato è il perno del film, in filigrana emerge anche la malinconica esistenza di Robertino, cresciuto senza amici perché la madre si sposta sempre, con propositi omicidi per il direttore del collegio. Cresciuto da una severa fraulein tedesca, il bambino è ben presto affascinato dalla vitalità sborona dal padre che ha il pregio di raccontarsi senza vergogna ogni volta che le sue balle vengono scoperte.
La giornata trascorsa con il figlio ha certamente il merito di far crescere Dino che dopo esser stato lasciato dalla compagna per non aver accettato il lavoro d’ufficio, scende a più miti consigli e accetta di sedersi dietro una scrivania accantonando, forse, il suoi velleitari progetti di ricchezza.
La dolcezza con cui Robertino saluta svariate volte il padre è ancora una volta segno della maturità del bambino che sa che quell’incontro resterà molto probabilmente, un unicum irripetibile.

Jojo Rabbit

ottobre 10, 2020

Germania, USA 2019
con Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Archie Yates, Rebel Wilson, Alfie Allen, Stephen Merchant
regia di Taika Waititi


Jojorabbit


Johannes Betzler ha dieci anni nella Germania nazista del 1945, il padre è al fronte, la sorella maggiore è morta, la madre per quanto dolce ha mille impegni e Jojo, succube della propaganda, ha come amico immaginario niente meno che il führer
in persona, che lo sprona ad essere coraggioso: quando a un campo della gioventù hitleriana il ragazzino non ha il coraggio di uccidere un coniglio diventando per i compagni Jojo Rabbit, sarà proprio Hitler a incoraggiarlo a lanciare una granata per dimostrare di essere coraggioso. Il gesto costa a Jojo delle ferite sul volto e una leggera zoppìa che lo escludono dalle attività militaresche ed è proprio rientrando a casa prima del previsto che il ragazzino scopre che la madre nasconde una ragazzina ebrea. Non potendo denunciarne la presenza per non fare incriminare la madre, a Jojo non resta che cercare di studiare il pericolo esemplare giudeo con cui si trova a convivere…

Ormai è tradizione (credo tutta italiana) far uscire un film che tratti il tema del nazismo in prossimità del Giorno della Memoria, con esiti molto diversi. Jojo Rabbit è un ottimo film che appartiene al filone che osa deridere il dramma nazista, a partire da Il Grande Dittatore, il solitamente dimenticato Vogliamo Vivere! di Lubistch per arrivare a Train de Vie e a La vita è Bella; con le pellicole citate Jojo Rabbit condivide solo il spirito ironico e graffiante ma i referenti sono ben altri.
Colori e atmosfere rimandano a Wes Anderson, soprattutto l’inizio al campo della gioventù hitleriana che non ha una chiara connotazione temporale, potrebbe essere un campo estivo organizzato da nostalgici, facendo capire da subito che il film si rolge soprattutto ai rigurgiti neofascisti dei nostri tempi.



Jojo Rabbit


L’unico amico di Jojo, Yorki, ricorda molto il Piggy de Il signore delle mosche, classico film per ragazzi che analizza la nascita del totalitarismo; la somiglianza non è solo fisica ma anche nel ruolo: nel film di Peter Brook il ragazzino diventa la memoria storica del gruppo, la parte razionale che viene eliminata, anche Yorki spiega le cose a Jojo ed è quello che nei tragici giorni della caduta di Berlino comunica a Jojo che Hitler si è suicidato nel bunker.
I toni drammatici ovviamente non possono mancare: la morte della madre, inattesa e toccante con Jojo che le allaccia le scarpe, lui che non era mai in grado di farlo bene, improvvisamente si ritrova adulto e solo (o quasi) nell’inferno della resa, le immagini della città distrutta rimandano a Germania Anno Zero e una volta di più comprendiamo il suicidio di Edmund nel film di Rossellini che molto probabilmente sarebbe anche il gesto di Jojo se non avesse a casa Elsa, il vituperato nemico di cui si è innamorato.



Jojo rabbit


Il messaggio e la positività del film sta tutto nell’incontro dell’altro: la convivenza forzata che diventa amicizia e il primo amore di Jojo. Lo scoprire che quanto ci è stato insegnato ad odiare non è diverso da noi ma più simile di quanto si creda (la condivisione della solitudine) e nonostante lo strazio della perdita alla fine dell’orrore si può riuscire a ballare sulle note di Heroes di David Bowie cantata in tedesco, una canzone che ti frulla in testa dall’eroico sacrificio del capitano Klenzendorf.

Frozen – Il regno di ghiaccio

dicembre 21, 2016

FrozenUsa 2013 Walt Disney Animation Studios
regia di Chris Buck e Jennifer Lee

Le principesse del regno di Arendelle, Elsa e Anna, sono molto legate ma la primogenita ha un dono particolare, quello di sprigionare il ghiaccio, che può essere un divertimento per la piccola Anna ma anche un pericolo e infatti la bambina viene involontariamente ferita dalla sorella. Per salvare Anna i regnanti si recano dal Re dei Troll che cancella dalla memoria di Anna il ricordo della magia di Elsa ma non la gioia della compagnia della sorella intanto i sovrani isolano Elsa nel tentativo di insegnarle a gestire il suo potere; quando muoiono in un naufragio la distanza tra le due sorelle accresce e Anna non capisce i motivi del rifiuto della sorella fino al giorno dell’incoronazione, quando Elsa non vuole di benedire le sue nozze con Hans, principe del Sud, appena conosciuto alla festa: esasperata la neoregina non riesce a gestire il suo potere e crea un inverno artico che rischia di distruggere Arendelle ma Anna non si da per vinta e rincorre la sorella che si è costruita un castello di ghiaccio sulla montagna del Nord..

Frozen è sicuramente il successo Disney più clamoroso degli ultimi anni: diversi premi vinti, musical ispirati alla pellicola che è subito stata metabolizzata dalla serie centone di tutte le fiabe, C’era una volta, nella quarta stagione del 2015.
Effettivamente i motivi per il successo planetario ci sono tutti: una storia decisamente complessa dove apparentemente la protagonista è Elsa ma in realtà la trama segue la maturazione di Anna, caparbia e sognatrice non rinuncerà mai al legame con la sorella per quanto questa la respinga per anni seppure a fin di bene. La sua sete d’affetto e l’ottimismo congenito la portano a fidarsi immediatamente di Hans che si rivelerà essere il vero “mostro” della situazione mentre fino alla fine non si accorge dell’amore e del sostegno di Kristoff, il venditore di ghiaccio che la aiuta dall’inizio della sua avventura alla ricerca di Elsa.
ElsaAnche Elsa è una principessa insolita: il potere da imparare a gestire forse strizza l’occhio ai comics ma la rappresentazione della natura ambigua che ne deriva è molto ben strutturata.
I film Disney sono sempre stati caratterizzati dalle canzoni, fin dagli esordi ma in Frozen la musica assume proprio il peso che ha un musical e mi ha colpito l’interpretazione molto attuale nella gestualità sopratutto nel brano All’Alba sorgerò cantato da Elsa.
Altro elemento molto innovativo è il gesto che scioglierà la trama, si tratta di una dimostrazione di vero amore ma per la prima volta non si tratta di amore sentimentale, bensì fraterno: anche a casa Disney non si aspetta più il principe azzurro ma si fa affidamento sul legame sororale della solidarietà femminile.
A Olaf, tenero uomo di neve che sogna il caldo dell’estate è affidato il lato buffo della vicenda con la complicità di Sven, la renna muta di Kristoff.
Se la trama è molto contemporanea nel ritmato miscuglio di avventura e fantasy, Frozen riprende il citazionismo artistico di Walt Disney: prestate attenzione alla quadreria del palazzo di Arendelle quando Anna canta eccitata per l’imminente incoronazione, le opere rappresentate sono tutte rivisitazioni di celebri quadri come L’Altalena di Fragonard.

Frantz

ottobre 4, 2016

1919, il francese Adrien si reca in Germania a visitare la tomba del giovane Frantz, caduto al fronte; i famigliari del ragazzo, incuriositi dall’insolita presenza incontrano Adrien che dice di essere un amico di Frantz di prima della guerra, di quando il giovane tedesco studiava a Parigi. Il legame tra gli Hoffmeister e Adrien si fa molto stretto anche se il giovane francese non è ben visto in città.
Un giorno Adrien decide di rivelare la verità ad Anna, la fidanzata di Frantz che vive con gli Hoffmeister: non è un amico di Frantz ma ha avuto un ruolo ben più drammatico nella vita del suo fidanzato. Anna fa credere ad Adrien di aver rivelato la sua vera identità agli Hoffmeister, invece continua ad illuderli con la menzogna dell’amicizia franco tedesca, intanto si scopre innamorata del francese che è tornato a Parigi. Su consiglio degli Hoffmeister, la ragazza parte e va a cercare Adrien ma quando lo ritrova non avrà a sua volta la forza di rivelare il motivo del suo viaggio..

Frantz

Ero molto curiosa di vedere l’ultima fatica di François Ozon, ispirata a L’uomo che ho ucciso di Ernst Lubitsch: non si può definire un remake perché il regista francese segue fedelmente, anche nella costruzione delle scene, il lavoro di Lubitsch e la pièce di Ronstand fino a metà film e poi decide sviluppare la trama in modo autonomo.
Parafrasando la celebre scritta che campeggiava nell’ufficio di Billy Wilder “cosa avrebbe fatto Lubitsch?” Ozon decide seguire il motto “cosa non avrebbe fatto Lubitsch”, nel bene e nel male.
Nel bene perché il regista francese non prova neanche ad imitare il celebre Lubitsch touch e sviluppa alcuni punti che oggi risultano poco credibili della pellicola lubitschiana e cioè l’accettazione quasi repentina dell’amore per l’assassino del fidanzato che Elsa fa in nome della serenità degli Holderlin mentre Anna impiega molto tempo ad accettare il sentimento per Adrien.
Mi è piaciuta anche la scelta di eliminare il prologo in Francia e iniziare il film con l’arrivo di Adrien in Germania: L’uomo che ho ucciso è un film pochissimo conosciuto quindi la gran parte degli spettatori s’identifica con lo shock di Anna quando scopre la vera identità del francese.
Molto interessante la scelta di mischiare l’uso del bianco e nero e del colore: al bianco e nero è riservato il grigiore e la desolazione della vita di un immediato dopoguerra con il suo peso quotidiano di dolore da affrontare, al colore spetta la dimensione del sogno, la serenità dell’illusione. Gli stacchi non sono improvvisi ma sfumati da un sapiente gioco di (de)saturazione.
Frantz indaga e aggiorna il tema del perdono, dell’accettazione del diverso, tema attualissimo ma quando inizia la seconda parte speculare alla prima con Anna che va in Francia e riveste il ruolo di straniera, si ripresenta la scena della confessione de L’uomo che ho ucciso e mentre lo spirito di anarchico e pacifista di Lubitsch aveva il coraggio di far rifiutare l’assoluzione a Paul, per Anna il discorso della colpa relativa di Adrien per ché ha ucciso un uomo in tempo di guerra è determinante per accettare il nuovo sentimento. Questa per me è la nota veramente dolente della pellicola: mi urta che nel nuovo millennio in cui guardiamo con sufficienza al passato, si sia poi più conservatori ed omologati che nel 1932 ma del resto tutta la ricerca di Anna ha dei risvolti molto banali e ovvi: Adrien è un ricco castellano perché il mito del principe azzurro anche se fragile è intramontabile, e Fanny, la fidanzata che pure è gentile, comprensiva e coraggiosa è ovviamente molto più brutta di Anna perché il cliché fiabesco della beltà dell’eroina deve continuare ad imperare.

L’uomo che ho ucciso

settembre 30, 2016

LuomochehouccisoBroken Lullaby
USA 1932 Paramount Pictures
con Phillips Holmes, Lionel Barrymore, Nancy Carroll
regia di Ernst Lubitsch

1919: a Parigi si festeggia il primo anniversario della fine della guerra con una grande parata e una messa solenne, alla fine della funzione l’ex soldato Paul Renard chiede conforto al sacerdote: non riesce a dimenticare Walter Holderlin, il soldato tedesco ucciso in trincea.
Il sacerdote lo assolve ma non è quello che il ragazzo cerca e, appoggiato dal prete, decide di recarsi in Germania per confessare tutto alla famiglia dell’uomo che ha ucciso. Incontrata la famiglia, Renard non ha il coraggio di confessare la verità e si fa passare per un amico francese che Walter aveva conosciuto prima della guerra, instaurando così un forte legame affettivo con la famiglia; nasce anche l’amore con Elsa, la fidanzata di Walter a cui Paul confida chi è veramente: dopo un primo momento di sconcerto, la ragazza fa in modo che Paul non riveli la sua vera identità ai genitori di Walter per non rovinare la loro ritrovata serenità.

Tratto dalla pièce teatrale scritta da Maurice Rostand, figlio dell’autore di Cyrano de Bergerac, Broken Lullaby è l’unico film drammatico girato negli Usa da Ernst Lubitsch, ciò non toglie che nel film siano presenti tutti i tratti distintivi della teoretica lubitschiana e anche il tocco ironico del maestro berlinese, il famoso Lubitsch touch risalta ancora di più nell’economia drammatica del film stemperandola dolcemente.
BrokenlullabyLa sequenza iniziale mi è rimasta in testa dalla prima volta che vidi la pellicola: più che l’inquadratura della parata attraverso la gamba mutilata del soldato, mi ha sempre colpito l’antinomia della Messa e i soldati inginocchiati con la spada: una contraddizione in termini che si esplicita nel dialogo tra Paul e il sacerdote quando il ragazzo rifiuta l’assoluzione per il crimine perché commesso in cause di forze maggiore: Lubitsch anticipa di oltre un decennio il problema della Seconda Guerra Mondiale con i campi di concentramento e che da allora pesa su tutte le guerre moderne: la responsabilità personale del singolo che non può essere abdicata per ordini superiori, del resto Paul ha ucciso un coetaneo disarmato, sorpreso in una trincea senza neppure dargli il tempo di difendersi, ha così modo di leggere la sua ultima lettera alla fidanzata e conoscere il suo nome e d indirizzo che lo porteranno in cerca di redenzione.
La Germania del 1919 viene rappresentata come un paese ferito e umiliato dalla sconfitta coi i francesi, la scena più toccante dove interviene il Lubisch touch è l’incontro al cimitero tra la signora Holderin e un’altra madre venuta a piangere il figlio, quando la donna scopre che il figlio si recava sempre dagli Holderin a mangiare la torta vuole sapere la ricetta e scopre che Mrs. Holderin usava due tazze di zucchero anziché una: il momento melodrammatico del pianto di un figlio ventenne morto in guerra si risolve nella dolcezza di una tazza di zucchero che riporta la figura di un ragazzo alla più consona dimensione della golosità adolescenziale.
Il legame degli Holderin con il francese non è ben visto nel villaggio e ancora una volta Lubitsch è maestro nel rappresentare il disdoro attraverso i pettegolezzi, le comari che si chiamano dalle finestre quando Elsa e Paul passeggiano per le vie. I compagni di bevute del dottor Holderin iniziano a vederlo come un traditore, se non altro del sacrificio del figlio e qui parte il celebre monologo del padre prima orgoglioso di avere un figlio soldato e che ora si vergogna di averlo mandato a morire per salvare l’onore dei padri e della nazione.
La chiusa sentimentale con Paul che non regge più la bugia sul passato e Elsa che lo perdona in nome di una serenità famigliare è un auspicio di pace per il futuro, che come sappiamo va miseramente fallita.

La corona di ferro

agosto 3, 2010

Coronadiferro Italia 1941
con Gino Cervi, Massimo Girotti, Elisa Cegani, Luisa Ferida
regia di Alessandro Blasetti

L’imperatore Costantino invia al Papa la miracolosa Corona di Ferro e nel lungo viaggio da Costantinopoli a Roma gli emissari dovranno attraversare una terra sconvolta dalla una sanguinosa guerra tra due popoli vicini. Il sovrano Licinio, sconfitto il popolo di Artace, vorrebbe siglare una pace onorevole ma ancora sul campo di battaglia viene ucciso a tradimento da una freccia e il suo crudele fratello Sedemondo si impossessa del potere, riducendo in schiavitu’ il popolo di Artace. Mentre torna a Kindaor, Sedemondo viene a conoscenza del passaggio sulle sue terre della Corona di Ferro e decide di impossessarsene ma una anziana donna che vive nel bosco lo avverte del futuro di morte che attende la sua unica figlia se tentera’ di toccare la sacra corona. Sedemondo cerca di tutti i modi di sventare il destino arrivando a rinchiudere la figlia in una torre e gettando il figlio di Licinio nella Valle dei Leoni, ma dopo vent’anni Elsa si innamorera’ di Arcinio e sulla lora strada ci sara’ Tundra, la ribelle figlia del re Artace..

Il film vinse a sorpresa la IX Mostra di Venezia, facendo dire a Goebbels che “un regista tedesco ch avesse girato questo film, oggi in Germania sarebbe stato messo al muro”, La corona di Ferro appartiene infatti a quel filone di pellicole con venature sovversive benche’ nate sotto il controllo del Minculpop e in questo caso siamo di fronte a un chiaro apologo pacifista e nella figura di Sedemondo si puo’ ravvisare anche una critica alla stesso Mussolini.
La pellicola di Blasetti riesce a divertire ancora oggi grazie alla grande abilita’ del regista di modulare i vari registri, dal drammatico al tono favolistico, dal comico alle scene d’azione senza mai scadere nella magniloquenza che un’opera cosi’ costosa poteva comportare.
Si tratta infatti di un kolossal fantasy girato gia’ in piena seconda guerra mondiale con grande dispendio di comparse e belve feroci sulla falsa riga dei kolossal storici di Pastrone. Si alternano senza soluzione di continuita’ scene en plein air e ricostruzioni in studio con fantasmagoriche invenzioni nei costumi e nelle scenografie (il palazzo di Kindaor racchiude reminiscenze del Castello Sforzesco di Milano e del Palazzo Ducale di Venezia mischiate alle solide architetture delle piazze umbro-toscane).
La raffinatezza della messa in scena e’ evidente gia’ in apertura: la leggenda della corona di ferro viene raccontata con il classico escamogate di aprire un volume, espediente usato centinaia di volte per dare la dimensione favolistica della narrazione, ma mai all’apertura della copertina e’ seguita la lettura di didascalie in caratteri gotici con le iniziali e i bordi del foglio tutti perfettamente miniati, restituendo fedelmente la struttura di un codice medievale.
Cast all stars: Gino Cervi gigioneggia da par suo nelle vesti di Re Segemondo, Massimo Girotti ha il doppio ruolo di Licinio e suo figlio Arminio, bello come un dio greco, atletico come Tarzan e ribelle come Robin Hood. Doppio ruolo di madre e figlia anche per le due interpreti femminili: Elisa Cegani, la languida eroina di tanti film storici, veste la sua diafana Elsa di una vena di malignita’ mentre Luisa Ferida interpreta una passionale e malmostosa Tundra. Osvaldo Valenti e’ il cattivissimo principe dei Tartari, Eriberto (!) mentre la vecchia col fuso e’ un’arguta Lina Morelli. Il campione di boxe Primo Carnera e’ Klasa, fedele servo di Tundra.
Il film si puo’ inserire nella diatriba su quale sia il primo film italiano a mostrare un seno nudo: notoriamente il primato spetta a Clara Calamai ne La cena delle beffe (film successivo di Blasetti) ma potrebbe essere anticipato dal vedo non vedo delle vesti stracciate della comparsa Vittoria Carpi proprio ne La corona di Ferro