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Scarface (1932)

dicembre 3, 2020

Scarface, The Shame of a Nation
USA 1932
con Paul Muni, Ann Dvorak, Karen Morley, Osgood Perkins, C. Henry Gordon, George Raft,Boris Karloff, Vince Barnett, Henry Armetta, Maurice Black, Tully Marshall, Ines Palance, Edwin Maxwell
regia di Howard Hawks, Richard Rosson


Scarface


L’ascesa di Tony Camonte inizia quando elimina il suo capo, Big Louis Costillo reo di non voler continuare ad espandere il territorio della gang. Il potere passa a Johnny Lovo che però non è in grado di tenere a bada la sete di potere di Camonte che si comporta come se fosse lui il capo e inizia la guerra contro gli irlandesi senza il consenso del capo. Lovo decide di eliminare Camonte quando gli ruba anche la donna, Poppy, ma sarà Camonte a eliminarlo con l’aiuto del del fedele Gino Rinaldo. Camonte ha una sorella minore, Cesca, l’unica in grado di tenergli testa e per cui nutre una gelosia eccessiva. Cesca s’innamora di Rinaldo e lo sposa quando Scarface è fuori città, scoperto che la sorella convive con uomo, Camonte si reca a casa sua e uccide Rinaldo senza lasciare il tempo agli sposi di giustificarsi. Cesca vorrebbe vendicare il marito ma non ha la forza di farlo e aiuta il fratello nel tentativo di difendersi dal definitivo attacco della polizia. La morte della ragazza svela la vera natura di Camonte che rimasto solo scopre di avere paura



Scarface


Scarface forma con Piccolo Cesare e Nemico Pubblico la trilogia capolavoro che da vita ai gangster movie degli anni ’30. E’ certamente il più noto dei tre grazie al remale di Brian de Palma del 1983 ma è anche il film con la storia più complicata.
Sicuramente il più efferato, ispirato alla vita di Al Capone, fu vittima della censura nonostante si fosse negli anni libertari del Pre-Code: il morboso rapporto tra Tony e Cesca che doveva creare un parallelo con i Borgia era sicuramente un tema molto forte, l’escalation di violenza turba ancora oggi ma di certo sul film pesa l’ombra del produttore, Howard Hughes, la cui indipendenza fu sempre osteggiata, in campo cinematografico dalle altre major disturbate dal suo successo di produttore indipendente.
La produzione del film fu così complessa che il film, girato nel ’30 uscì solo nel ’32 con un finale alternativo che vede Camonte giustiziato per impiccagione, una didascalia introduttiva e inserti moraleggianti: quello dell’editore che invita la popolazione a scendere in campo contro la criminalità organizzata non fu nemmeno girato da Hawks e valse l’accredito alla regia per Richard Rosson. Nonostante le modifiche e i tagli, diversi Stati americani rifiutarono di proiettarlo; anche in Europa la situazione non fu facile: proibito in Italia e Germania ed ebbe vita difficile anche in Inghilterra. Hughes esasperato, tolse il film dalla circolazione e riapparve solo dopo la sua morte, una decina di anni dopo il remake di Brian De Palma trasformò definitivamente il film in un cult.
La regia di Howard Hawks è asciutta ma non per questo meno raffinata: il piano sequenza iniziale che termina con la morte di Costillo dietro una vetrata, le geometrie a X come riferimento alla morte: dalla cicatrice sul volto di Camonte alla traiettoria della palla da bowling nell’ultimo tiro di Gaffney (interpretato da Boris Karloff). L’escalation della violenza è decisa e rappresenta la morale di Camonte: per lui non c’è che la sopraffazione per raggiungere il potere: “Fallo per primo, fallo da solo e continua a farlo”. Scarface rappresenta una distorsione del sogno americano: il globo luminoso dell’insegna “the world is your” è l’incitazione per ottenere fama e successo che arridono solo ai vincenti senza preoccuparsi se i mezzi per raggiungere la gloria fossero leciti, tema estremamente contemporaneo.
Hawks avrebbe voluto raccontare l’ascesa e la caduta di Scarface come una tragedia ispirata ai Borgia da qui il legame quasi incestuoso con la sorella Cesca, di cui rimane solo una traccia inequivocabile nella scenata di gelosia quando Tony riporta la sorella a casa dal ballo e nella rissa le strappa il vestito all’altezza del seno. Se la madre fin da subito avverte la figlia di star lontano dal fratello perché incarnazione del male, nella sceneggiatura originale veniva rappresentata come compiacente alle abitudini da gangster del figlio.
Il dramma esplode con l’omicidio di Gino Rinaldo, il fedele braccio destro di Tony, diviso tra la lealtà al capo e l’amore per Cesca (in fondo due facce della stessa medaglia). Niente di pulito come l’amore onesto dei due giovani che si sono sposati può crescere nel degrado della malavita e l’omicidio di Gino è la causa della morte anche di Cesca che, per vendicare il marito, si era recata nella casa del fratello restando uccisa dalla pioggia di proiettili che la polizia spara contro la casa bunker del gangster e sarà proprio una persiana di metallo, vanto di Camonte, a deviare il proiettile che colpisce Cesca. Improvvisamente solo, Scarface scopre la paura che non aveva mai conosciuto: il coraggio se n’è andato con Cesca e si avvera la profezia dell’ispettore Guarino da sempre sulle tracce di Scarface: il grand’uomo finisce piagnucolante come tutti i gangster che l’hanno preceduto.
Il finale di Hawks con il gangster vigliacco in fuga dalla propria abitazione crivellato di colpi, non fu ritenuto abbastanza edificante: nelle sale americane
si mise in scena il finale con l’impiccagione di Camonte, e ne esiste un altro dove il boss crivellato di colpi muore su un cumulo di sterco.
Il film è notevole anche per le interpretazioni: Muni disegna un gangster esaltato dalla violenza che in lui assume tratti belluini soprattutto quando si tratta della sorella, quasi una sorta di Mister Hyde senza corrispettivo positivo e una bella versione cinematografica del romanzo è proprio del 1931.
A far da contraltare alla recitazione a tratti caricaturale di Muni c’è quella trattenuta di George Raft, quasi un Bogart antelitteram, stella degli anni’30 che aveva rapporti con i malavitosi e fu chiamato a rapporto dallo stesso Al Capone durante la lavorazione del film.

American gangster

febbraio 4, 2008

Americangangster Su finire degli anni ‘60 la polizia corrotta di New York domina il mercato della droga, il piccolo delinquente di colore Frank Lucas decide di sfruttare i voli militari con il Vietnam per comprare l’eroina direttamente dai produttori orientali e immetterla sul mercato americano a prezzi bassi e ad una qualita’ altissima, scalando in breve i vertici della malavita organizzata, fino a quando l’incorruttibile Richie Roberts non si mette sulle sue tracce..

Ispirandosi alla storia vera del primo boss di colore, Ridley Scott gira un fim godibile (anche se i 156 minuti della durata del si sentono) che cita a piene mani i capolavori del genere, senza mai riuscire a trovare il tono epico della vicenda. Il genere gangster nasce negli anni ’30 con l’intento di mettere alla berlina i protagonisti della malavita facendoli sempre morire in modi ignominiosi: la descrizione dei boss come looser, ribelli senza causa da’ un tono tragico alla produzione e la seconda grande stagione del genere, gli anni’ 70 de Il padrino e Scarface coglie in pieno questa connotazione trasformandola in pura epica, nel film di Scott questo manca: Richie, il poliziotto e’ troppo buono, va bene l’incorruttibilita’ sul lavoro ma quando rinuncia alla tutela del figlio conscio della sua vita senza regole, la simpatia scema di botto.
Frank poi sembra solo un impiegato del crimine: per quanto geniale, si ha l’impressione che sia riuscito a diventare un grande boss solo per un colpo di fortuna, finita la guerra in Vietnam che gli faceva da copertura, sarebbe riuscito a rimanere ai vertici?
Scott segue il suo protagonista fino al positivo epilogo (positivo se restiamo nell’ambito del gangster movie) e allora mi chiedo se l’accento del titolo sull’essere americano, che distingue il nostro eroe dagli italiani, i francesi e cosi’ via per le altre razze non voglia sottolineare ancora una volta la grandezza del sogno americano che offre sempre una seconda possibilita’.

Romanzo criminale

ottobre 17, 2005

Romanzocriminale Quello che piu’ mi ha colpito in questo film e l’impianto romanzesco, la dimensione quasi epica dei protagonisti, personaggi per cui si sarebbe simpatizzato senza remore, se solo fossero appartenuti ad un’epoca piu’ remota. Soprattutto Il libanese ha il fascino del brigante (o del gangster anni ’30) che solo in una vita violenta puo’ trovare il riscatto di un’ esistenza, mentre Il freddo e’ un eroe romantico, dilaniato tra l’opportunita’ di un grande amore che potrebbe essere l’occasione di cambiar vita e il dovere di vendicare un amico che e’ stato tutta la sua famiglia. Il dandi no, non e’ un personaggio amabile: troppo pusillanime e disposto a scendere a patti con coloro che hanno permesso l’ascesa della banda, e’ in fondo il personaggio piu’ moderno dei tre, in grado di muoversi agilmente in un mondo dove la mala si mischia con l’alta finanza.
Alla sceneggiatura di ampio respiro, cosi’ inusuale per il cinema italiano contemporaneo, si unisce un cast in stato di grazia, rimarchevoli le prove dei protagonisti: Pierfrancesco Favino eccezionale nel portare sullo schermo la grinta ferina del libanese e Kim Rossi Stuart ottimo nella sua recitazione trattenuta, fatta di mezzi sorrisi: quando i due recitano insieme sono davvero notevoli.
Da menzionare anche il lavoro di ricostruzione storica di circa un quarto di secolo di storia italiana, perfettamente resa attraverso l’abbigliamento e un parco macchine ineccepibile.
I difetti del film stanno tutti nella regia, nelle pretese autoriali di Placido: anche la scelta di inserire i filmati d’epoca diventa ridondante: se gli spezzoni del rapimento Moro avevano una loro ragione d’essere sul grande schermo, per la strage di Bologna ho trovato molto piu’ commovente il dettaglio dell’orologio, ormai simbolo di quel tragico fatto, mentre erano del tutto pleonastiche le immagini dell’attentato a Giovanni Paolo II e della vittoria ai mondiali ‘82: il compito di scandire il tempo poteva essere sopperito anche dalle notizie date radiofonicamente.
Discutibile anche la decisione di caratterizzare l’anonimo burattinaio di tutte le vicende con i tratti fisici di Andreotti, la gobba, le orecchie a sventola e la testa incassata nelle spalle: lo spettatore si distrae dalle vicende piu’ importanti per cercare di capire se si tratta veramente dell’onorevole, risulta molto piu’ inquietante la figura del suo portaborse, l’ambiguo Carenza magistralmente interpretato da GianMarco Tognazzi.
Il regista giustifica la preferenza dell’uso di campi e controcampi come una necessita’ tecnica per non eccedere in ricostruzioni e come un omaggio a Sergio Leone, pero’ girare il 95% del film con questa tecnica rischia di banalizzare il film, facendolo scadere piu’ nella noia che nel doveroso citazionismo!
Altro referente di Placido e’ tutto il gangster movie americano, (la villa del libanese riprende quella dello Scarface di De Palma), mentre se si fosse ispirato maggiormente ai poliziotteschi italiani anni ’70 il film avrebbe sicuramente guadagnato in compattezza e tensione, soprattutto se si fosse indugiato in qualche dettaglio piu’ truculento: per essere un film sulla malavita il sangue latitava un po’.

American gangster

dicembre 31, 1969

Americangangster Su finire degli anni ‘60 la polizia corrotta di New York domina il mercato della droga, il piccolo delinquente di colore Frank Lucas decide di sfruttare i voli militari con il Vietnam per comprare l’eroina direttamente dai produttori orientali e immetterla sul mercato americano a prezzi bassi e ad una qualita’ altissima, scalando in breve i vertici della malavita organizzata, fino a quando l’incorruttibile Richie Roberts non si mette sulle sue tracce..

Ispirandosi alla storia vera del primo boss di colore, Ridley Scott gira un fim godibile (anche se i 156 minuti della durata del si sentono) che cita a piene mani i capolavori del genere, senza mai riuscire a trovare il tono epico della vicenda. Il genere gangster nasce negli anni ’30 con l’intento di mettere alla berlina i protagonisti della malavita facendoli sempre morire in modi ignominiosi: la descrizione dei boss come looser, ribelli senza causa da’ un tono tragico alla produzione e la seconda grande stagione del genere, gli anni’ 70 de Il padrino e Scarface coglie in pieno questa connotazione trasformandola in pura epica, nel film di Scott questo manca: Richie, il poliziotto e’ troppo buono, va bene l’incorruttibilita’ sul lavoro ma quando rinuncia alla tutela del figlio conscio della sua vita senza regole, la simpatia scema di botto.
Frank poi sembra solo un impiegato del crimine: per quanto geniale, si ha l’impressione che sia riuscito a diventare un grande boss solo per un colpo di fortuna, finita la guerra in Vietnam che gli faceva da copertura, sarebbe riuscito a rimanere ai vertici?
Scott segue il suo protagonista fino al positivo epilogo (positivo se restiamo nell’ambito del gangster movie) e allora mi chiedo se l’accento del titolo sull’essere americano, che distingue il nostro eroe dagli italiani, i francesi e cosi’ via per le altre razze non voglia sottolineare ancora una volta la grandezza del sogno americano che offre sempre una seconda possibilita’.